Franca Porciani, Sette 7/3/2014, 7 marzo 2014
COSÌ L’AUSTERITÀ FA AMMALARE LA GRECIA
In Resa dei conti, tradotto in Italia da Bompiani nel 2013, Petros Markaris, scrittore e sceneggiatore greco (ma di padre armeno), ipotizza una società che, decretata l’ultima notte dell’euro, torna con entusiasmo alla dracma. Ma la festa dura poco: le banche chiudono, i disoccupati diventano un esercito, la gente è alla fame, i vecchi sono abbandonati a se stessi. In Grecia l’euro c’è ancora, ma i tagli imposti dall’austerità stanno intaccando seriamente la qualità della vita e, soprattutto, la salute della popolazione. Sembra impossibile in un Paese avanzato, ma dal 2011 al 2012 la mortalità degli anziani è cresciuta indipendentemente dalle patologie dell’invecchiamento, quella infantile è aumentata del 43 per cento, il numero di neonati di basso peso è cresciuto del 19. Senza contare la sieropositività in costante ascesa fra gli eroinomani, dove è ricomparsa una malattia antica, la tubercolosi. Dati spaventosamente reali, visto che li pubblica la rivista medica Lancet che a questo dramma emergente dedica anche l’editoriale, riassumibile nella frase finale: «Quel che sta accadendo in Grecia, frutto dei tagli indiscriminati all’assistenza sanitaria, sia di avvertimento agli altri Paesi dell’Eurozona perché non entrino in questa spirale che rischia di trasformare una società in recessione in una società malata nel corpo e nello spirito».
Sì, perché i dati riportati sulla rivista inglese da Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge, e da David Stucker, suo collega a Oxford, rilevano anche un aumento dei suicidi del 45 per cento (limitato alla popolazione maschile nei primi anni della crisi, ma che poi ha coinvolto anche le donne) e una percentuale più che raddoppiata di persone colpite da forme gravi di depressione.
Come è potuto accadere tutto questo? Il regime di austerità consigliato dalla Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) ha portato il governo greco a tagliare del 26 per cento il budget destinato agli ospedali e a ridurre drasticamente la spesa farmaceutica: dai 4 miliardi e mezzo del 2010 ai 2 miliardi e ottocento milioni del 2012, fino ai 2 miliardi di quest’anno. «Un taglio da macellaio», ha ammesso lo stesso ministro della Sanità Andreas Loverdos, in carica dal 2010 al 2012. In sintesi, si è arrivati complessivamente a una contrazione del 40 per cento.
Un sistema già imperfetto. Con effetti devastanti: le case farmaceutiche stanno abbandonando un mercato dove rischiano di non essere mai pagate (nel 2012 la Merck ha sospeso la fornitura degli antitumorali agli ospedali ellenici) e certi medicinali sono diventati così rari che è comparso il “baratto”. Per far fronte alle richieste dei clienti si scambia un farmaco per il Parkinson con un altro contro l’epilessia, come ha raccontato al Lancet Georgia Fanourakis, farmacista al Pireo. Perfino l’aspirina è difficile da trovare e ormai solo i privilegiati possono comprare le medicine. Tant’è che su 12.000 farmacie esistenti in Grecia, 800 stanno chiudendo e 200 sono in gravi difficoltà.
Una sanità al collasso, ma che già prima della crisi non godeva di ottima salute, come spiega Gavino Maciocco, docente di politica sanitaria all’università di Firenze e direttore della rivista Salute Internazionale: «Il sistema sanitario nazionale in Grecia è stato istituito nel 1983 ma, a differenza di quanto è successo in Italia nel 1978, la sua nascita non ha abolito le vecchie mutue di categoria. E nonostante che diverse leggi abbiano tentato di risolvere questa contraddizione, la Grecia si è affacciata alla crisi nel 2008 con una spesa sanitaria fuori controllo, pari al 10,1 del Pil, una delle più alte d’Europa (la nostra all’epoca era l’8,9)».
Senza dimenticare la corruzione, talmente diffusa che in molte corsie di ospedali e ambulatori si trovano adesivi simili a quelli degli avvisi “non fumare”, ma dove al posto della sigaretta barrata c’è una busta, simbolo della fakelaki, la mazzetta necessaria per guadagnarsi qualche posizione in lista d’attesa.
Ma se la Grecia sembra tornata indietro di cinquant’anni, anche la Spagna sotto il profilo della Sanità sta vivendo anni difficili. Per fronteggiare la crisi nell’aprile del 2012 un decreto reale, bypassando il Parlamento, ha eliminato la copertura universale delle spese sanitarie restringendola ai lavoratori occupati; sono stati anche ridotti i posti letto e per i pensionati è stato imposto un ticket sui farmaci. Non a caso, anche qui, sono aumentati l’alcolismo e la depressione. In Portogallo, dove i tagli al budget per la Sanità richiesti dalla Troika sono stati di 670 milioni di euro, il segno più vistoso della sofferenza dei cittadini è stato l’aumento del 10 per cento dei decessi fra le persone sopra i 75 anni tra il 2011 e il 2o12.
La lezione islandese. Che fare allora? Bisogna imboccare una strada diversa ammonisce il “guru” degli studi sulla medicina delle diseguaglianze, Sir Michael Marmot, dell’University College di Londra: «Il sistema sanitario universale non deve essere messo in discussione perché è una componente fondamentale della coesione sociale, uno dei motori stessi dell’economia di un Paese». E Marmot richiama l’esperienza dell’Islanda, travolta da una crisi bancaria senza precedenti nel 2008, che si rifiutò (ci fu un referendum nel 2010) di mettere in atto i tagli alla Sanità che le consigliava il Fondo Monetario Internazionale. Gli islandesi tirarono la cinghia, ma la loro salute fu salva. Anzi, ironizza il Lancet, migliorò perché l’aumento del prezzo di importazione delle cipolle e dei pomodori fece fuggire dall’isola il colosso McDonald’s e la popolazione, non potendosi permettere i ristoranti, tornò ai fornelli. Cucinando soprattutto pesce, che costa poco e fa bene. Tutto il mal non viene per nuocere.