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 2014  marzo 07 Venerdì calendario

«SUL CANCRO FINANZIAMO PIÙ RICERCHE DEGLI AMERICANI»


[Umberto Veronesi]

In media in Europa i ricercatori sono sette su mille lavoratori occupati; in Italia, quattro o poco di più (4,3 per la precisione), nonostante che il nostro Paese resti all’ottavo posto nel mondo per articoli scientifici pubblicati. Poche persone dedicate alla ricerca, dunque, drammaticamente poche, ma buone, quel che si dice “ottimi cervelli”. Dati appena pubblicati da Observa, centro di ricerca indipendente che studia i rapporti fra scienza e società, buona conferma – ammesso che ce ne fosse bisogno – della “politica” adottata dalla Fondazione Umberto Veronesi fino dal suo esordio nel 2003: sostenere con borse di studio i giovani più promettenti, avviandoli (senza sacrifici personali insostenibili) sulla strada della ricerca.
Perché, ne è convinto il medico più famoso d’Italia, in Italia il primo bisogno è creare un “esercito” di ricercatori capaci di produrre una massa critica di ricerche. Così le 4 borse del 2003 sono diventate 44 nel 2007, 54 nel 2010, e oggi, edizione 2014, arrivano a 153. Con un’uguale consistenza economica per tutti: 30.000 euro. La consegna avverrà in Campidoglio, il 26 marzo. Una ricorrenza ormai.
Un appuntamento annuale importante, professore?
«Indubbiamente: bello ed emozionante per questi ragazzi. Ma anche per noi, lo confesso; siamo arrivati a 153 borse di studio, un numero quasi triplicato rispetto al 2010, nemmeno l’American Cancer Society ne finanzia tante. Tra l’altro le nostre borse sono prolungabili (io lo chiamo “denaro di semina”) e alcune sono a favore di ricercatori stranieri, che vengono da noi a imparare, a esempio, tecniche chirurgiche meno aggressive di quelle che si praticano nei loro Paesi; è il caso della Russia. Senza dimenticare che a queste si aggiungono 18 progetti di ricerca ai quali vanno somme variabili dai 100.000 ai 200.000 euro».
I criteri di selezione?
«Assolutamente indipendenti anche se poi certe strutture risultano inevitabilmente più premiate di altre, come accade per l’Istituto dei tumori di Milano che è stato la culla della cultura oncologica in Italia (e non solo). Sono orgoglioso dei criteri rigorosi che guidano le nostre scelte; niente scorciatoie o corsie preferenziali. Mi affido a un comitato scientifico di alto profilo di cui oggi è Presidente Chiara Tonelli, prorettore alla Ricerca dell’università di Milano, grande esperta di genetica molecolare, che alla ricerca ha dedicato tutta la vita».
I settori sono tanti: si spazia dall’oncologia alla cardiologia, dalle neuroscienze alla nutrigenomica. E in ogni ambito si va da ricerche di base come quelle sulle cellule staminali dei tumori ad altre cliniche, come l’utilità del lipofilling nella ricostruzione del seno, e i risultati della chirurgia robotica rispetto a quella standard sulla qualità di vita. Non si rischia la dispersione?
«Questo spaziare in vari settori oggi è assolutamente necessario perché la scienza ormai dilaga in ogni campo, dalla biologia molecolare all’alimentazione, dove si va alla ricerca nei nutrienti delle molecole anticancro capaci di proteggere (addirittura) un organo preciso. Noi italiani abbiamo un posto importante nell’innovazione: siamo capaci di idee originali».
Le donne come figurano nelle vostre scelte?
«Puntiamo su di loro, metà circa delle nostre borse di studio sono destinate a donne. Ne sono felice, mi ritengo un femminista, ma mi rendo anche conto che l’affermazione delle donne sta scatenando un forte risentimento nel mondo maschile (ne è espressione lo stesso femminicidio, bruttissima parola che indica un fenomeno drammaticamente vero). Eppure l’uomo deve rassegnarsi, accettare di condividere il potere con tutta la popolazione e non soltanto con la metà simile a lui, cosa non facile, visto che ci era abituato da sempre. Siamo tanti su questo pianeta, ma per millenni il cervello di metà della popolazione non è stato utilizzato; ora si cambia e questo porterà a un grande arricchimento, muterà in meglio la società. Ma, intanto, crea sconcerto, smarrimento. Nella ricerca, le donne si trovano avvantaggiate perché sono motivate e meno avide di denaro: difficilmente vanno a lamentarsi perché guadagnano troppo poco, l’uomo lo fa regolarmente».
A questo proposito, cosa pensa delle quote rosa?
«Proprio non mi piace l’idea: sono per un’equa distribuzione dei ruoli, che superi i pregiudizi, che rifletta la composizione della società, che fino a prova contraria è fatta per metà da uomini e per metà da donne».
Lei è stato anche in politica…
«Sì certo e l’ho fatto volentieri anche se è stato un grosso sacrificio dividermi fra Roma e il lavoro qui a Milano. D’altro canto, non si può criticare la politica senza dare niente. Ho fatto il ministro e il senatore per una legislatura: non è stato facile per me perché le logiche di partito sono molto conformiste. Ci si deve adeguare alle indicazioni del segretario e io non l’ho fatto: ho mantenuto sempre la mia indipendenza».
Lei gode di un’enorme popolarità: come se lo spiega?
«Sarà perché ho salvato il seno a una grande quantità di donne…».
Non basta.
«Credo che sia una storia di capacità di comunicare, di entrare in sintonia con l’altro ma anche di affascinare. Ma non si affascina se non si è capaci di ascoltare. Te ne accorgi subito dagli occhi di chi ti sta davanti se ci sei riuscito. C’è una raccomandazione che, non a caso, faccio da sempre ai miei medici: se un paziente vi ferma nel corridoio anche per un’informazione banale, ascoltatelo con pazienza, sempre».
Lei pensa che le campagne di prevenzione dei tumori abbiano già giocato tutte le loro carte oppure si può inventare ancora qualcosa…
«In realtà mancano tante cose, per esempio una campagna televisiva seria contro il fumo, ma le sigarette sono un business troppo grande per tutti, soprattutto per lo Stato... La grande sfida è comunque qui, sul piano della prevenzione perché sul fronte della terapia abbiamo fatto grandi passi avanti, abbiamo imparato a curare il cancro, ma non abbiamo vinto. La responsabilità adesso passa dalla classe medica alla popolazione che deve prendere in mano “la cura” della propria salute, imparando nuovi stili di vita e alimentari. Scoprendo che viene naturale, che è più facile vivere così, senza che l’aderenza alla prevenzione diventi una costrizione. I miei libri sull’alimentazione hanno avuto un grande successo, a riprova di una crescente sensibilità a questi temi. E i giornalisti possono starci accanto in questo “passaggio”, fare, come molti già fanno, un buon lavoro di divulgazione. Devono smettere, però, di dare alla parola cancro un significato così negativo e di utilizzare termini “bellici” quando scrivono di terapie dei tumori: guerra, armi, pallottole, sfida. È un linguaggio facile, ma negativo come messaggio di comunicazione. Perfino lo spread qualche tempo fa era diventato un “cancro”…».