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 2014  febbraio 22 Sabato calendario

Padoan, da teorico dell’austerità a suggeritore della svolta-crescita Krugman lo attaccò perché all’Ocse era iper-rigorista

Padoan, da teorico dell’austerità a suggeritore della svolta-crescita Krugman lo attaccò perché all’Ocse era iper-rigorista. Posizione che ha superato Stefano Lepri Era un po’ forzato il titolo «Basta austerità. All’economia servono stimoli» che questo giornale mise a un’intervista con Piercarlo Padoan, nel dicembre 2012, verso la fine del governo Monti. Ma il vicesegretario generale e capo economista dell’Ocse non se ne ebbe a male. C’era in effetti una svolta nelle analisi, che andava segnalata. Negli anni precedenti, l’Ocse aveva molto raccomandato l’austerità. Per esempio rimandano a un rapporto sugli Stati Uniti del settembre 2010 le accuse di consigli dannosi rivolte a Padoan da Paul Krugman, premio Nobel e capofila degli economisti di sinistra americani. L’errore fu capito prima dal Fondo monetario, poi dall’Ocse: recessione troppo grave, si era esagerato. La svolta c’era, confermò Padoan al Wall Street Journal; benché non giungesse fino a definire del tutto sbagliata l’austerità, come sarebbe piaciuto a Krugman. Anche a titolo personale, il neo-ministro dell’Economia la pensa ancora così: passare dall’austerità alla crescita non è possibile «facendo crescere il debito, che fa crescere lo spread» ma solo «cambiando la composizione del bilancio pubblico». Insomma occorre «abbattere le tasse sul lavoro» tagliando le spese, «a questo serve la spending review» (così ha scritto sul sito internet «Inpiù»). Non piacerà a sinistra, questo; e nemmeno a una parte della destra all’italiana, quella dei «pugni sul tavolo» in Europa. Oggi Padoan è un economista, come si dice in inglese, «mainstream» ovvero parte del vasto consenso pro-mercato. Però è nato a sinistra, anzi marxista. Appena laureato in Economia internazionale, a Roma (suo maestro Giancarlo Gandolfo) cominciò a collaborare con la rivista del Pci «Critica marxista». In seguito gli studi lo condussero a capire che le vecchie ricette non funzionavano. Così nacque un saggio a più mani di cui si parlò molto, «Afferrare Proteo». Fu preso male dagli anziani del partito, in un insolitamente affollato dibattito all’Istituto Gramsci dell’autunno 1980, quel tentativo di conciliare autogoverno collettivo e mercato, opera di economisti allora tra i 30 e i 35. Tra loro c’erano anche Giorgio Rodano, ora docente a Roma 1, Andrea Boitani, Cattolica di Milano, Claudio De Vincenti, sottosegretario allo Sviluppo nei governi Monti e Letta, Alberto Zevi a lungo dirigente Legacoop, e altri. Mentre con lentezza gran parte del Pci si orientava nella medesima direzione, Padoan continuava ad aprire la via. Con il primo presidente del Consiglio ex-Pci, Massimo D’Alema, dall’università fu chiamato al governo come consigliere per l’economia internazionale. A Palazzo Chigi rimase anche con il governo Amato 2, per poi essere inviato a rappresentare l’Italia nel Fmi. Insediato a Washington si trovò ben presto a rispondere a un ministro di altre idee come Giulio Tremonti; non si ricordano conflitti. A inviarlo all’Ocse, a Parigi, nel 2007, come uno dei 4 vice del segretario generale, è stato il governo Prodi 2; nel 2009 lì è diventato anche capo economista, lo stesso ruolo svolto in passato dall’attuale governatore Ignazio Visco. Da quell’osservatorio ha analizzato e valutato le politiche economiche dei 34 Paesi più avanzati. Proprio nel suo ultimo lavoro per l’Ocse, pubblicato ieri, Padoan - nei limiti in cui si può farlo in nome di una burocrazia intergovernativa - ha offerto una versione non banale dei problemi che abbiamo davanti. L’attuale declino dell’Italia vi appare come un caso estremo della bassa crescita economica che minaccia tutti i Paesi industriali (all’americana, «secular stagnation»). Per evitare questo esito occorrono profonde riforme economiche ovunque, non solo nei Paesi peggio messi come il nostro, anche in quelli che se la passano meglio, come la Germania.A Matteo Renzi il ministro dell’Economia potrà spiegare che in caso di bassa crescita prolungata il limite europeo del 3% di deficit - già faticoso da rispettare - diverrebbe addirittura insufficiente a frenare il debito italiano. Dunque, o riforme o si va al disastro; e in questo dovrebbero trovarsi d’accordo.