Gigi Riva, L’Espresso 7/4/2014, 7 aprile 2014
IMPERO PUTIN
Dov’è l’Europa? Dove sono gli Stati Uniti? Qualche consigliere malaccorto dovrebbe spiegare quelle assenze ai ragazzi di Maidan, al gruppo di coraggiosi liberali che per tre mesi hanno resistito dietro le barricate pagando anche un pesante tributo di sangue, ora che con una sola mossa lo zar Vladimir Putin ha dato scacco matto, si è ripreso il controllo del suo personale impero post-sovietico, l’influenza sullo "spazio vitale" che una potenza come la Russia reclama a gran voce sbattendo il pugno sul tavolo di una diplomazia logorroica ma balbettante. «Quante divisioni ha l’Europa?», potrebbe dire il capo del Cremlino parafrasando Stalin («Quante divisioni ha il Papa?»). E quale credibilità ha Washington se in Siria come in Ucraina traccia «linee rosse», valicando le quali non c’è reazione.
I ragazzi sono stati illusi di non essere soli a combattere la loro rivoluzione di febbraio, mentre era il solito armiamoci e partite, l’ennesima "primavera" che sfiorisce dietro le ragioni del realismo cinico della geopolitica. Agevolato da una serie di errori catastrofici commessi non da chi ha vent’anni e sogna, ma da chi ha sbagliato a suggerire una strategia suicida, per nulla considerando il contesto, i rapporti di forza, la storia e la geografia. Ci si era illusi che le "Putiniadi" le sue Olimpiadi a Sochi, avessero distratto il padrone di Mosca al punto da non fargli vedere le bandiere gialle e blu che sventolavano, solo due settimane fa, in piazza Indipendenza a Kiev, come una sfida lanciata proprio a lui. Da non fagli vedere, soprattutto, i vessilli in ricordo di Stepan Bandera, l’ultranazionalista ucraino che collaborò con Hitler, agitati dai gruppi di estrema destra quando non esplicitamente neonazisti. Ai sinceri liberali si erano aggiunti "Svoboda", "Pravi Sektor", sigle inquietanti, coi loro miliziani e il loro credo assolutista. Maidan era più forte ma meno "pura". A fianco a fianco lottavano persone con un’idea molto differente del futuro. E quando ci si è seduti per spartire il potere lasciato vacante dal corrotto, e nel suo crepuscolo anche sanguinario, Viktor Janukovich, i fascisti hanno preteso e ottenuto la loro parte. Un vice-premier, il controllo dei servizi di sicurezza. Ruoli chiave. La legge che ha abolito la tutela della lingua russa (poi non ratificata però fuori tempo massimo: quando i soldati di Mosca già calpestavano coi loro scarponi il suolo della patria) parlata dalla maggioranza nel sud e nell’est del Paese dove i russi sono in maggioranza e i russofoni ancora di più (vedi mappa nella pagina precedente). Col risultato di scatenare una rivolta anti-Kiev e la richiesta di autonomia spinta, quando non di secessione.
Per calmare le acque il nuovo primo ministro Arseniy Yatsenyuk, 39 anni, ha cercato la soluzione sul terreno che gli è più congeniale: l’economia. Per arrivarci, merita una digressione sul suo profilo. Origini ebraiche, avvocato per studi universitari, ha fondato uno studio legale per poi appassionarsi alle questioni monetarie. Da ministro delle Finanze ha molto viaggiato e si è fatto estimatori in Occidente. Faccia presentabile e da secchione, un buon matrimonio con la figlia di due intellettuali, si è costruito fama di tecnico, cosa che non dispiace alla business community. Per ricondurre le province ribelli sul terreno del dialogo ha pensato di nominare in fretta e furia governatori di quelle aree alcuni oligarchi che, con le loro industrie, danno da mangiare a migliaia di famiglie. A Donetsk, capoluogo del Donbass, proprio sul confine orientale, la carica è stata affidata al re dell’acciaio Sergej Taruta, che l’ha presa per quella che è: un grattacapo. E si è eclissato in attesa di tempi migliori. Per dare l’idea del caos, sono almeno tre i governatori che si contendono la carica. Oltre a Taruta, Andrej Chichatsky, che lo era effettivamente con Janukovich di cui era fedelissimo, e uno che si è autoproclamato grazie al supporto di un gruppo di scherani, Pavel Gubarev. Così definisce la sua identità plurale: «Sono cittadino ucraino ma di nazionalità russa». A Dnepropetrovsk, zona di miniere dove un segretario del Pcus, Leonid Breznev, prese il diploma all’Istituto di studi metallurgici, comanda Igor Kolomoisky, presidente del Congresso ebraico, residenze sparse tra Ginevra e Kiev, interessi oltre che nell’immancabile (da queste parti) acciaio, in compagnie aree e nelle tv. Proprio un canale di sua proprietà, "1+1" ha dato la notizia dell’accordo. La scommessa del premier è evidente: se non credete nel nuovo governo, pensate almeno ai vostri stipendi. Sirena sensibile se non si fosse già andati oltre e non spirasse un vento di confronto così forte da minacciare tempesta. E da far prefigurare una nuova forma istituzionale come antidoto alla divisione: decentralizzazione, autonomia, federalismo, al limite Confederazione. Tutte ipotesi su cui si sta lavorando.
Al solito nei conflitti la prima vittima è la verità. La propaganda è al lavoro e vanno registrate, per quel che valgono, alcune voci che comunque dipingono il clima. Diversi russi avrebbero varcato la frontiera in aiuto dei fratelli separati e sarebbero gli agitatori delle manifestazioni contro il potere centrale. All’opposto, manipoli al soldo di qualcuno degli oligarchi che appoggiano la svolta vanno casa per casa a minacciare i rivoltosi. Tutto da prendere con le pinze, ma il segnale inequivocabile che qui, ad Est e a Sud, si gioca la partita decisiva sull’unità dell’Ucraina.
Un’unità che esclude la Crimea, saldamente nelle mani di Mosca. Putin nei Giochi olimpici affacendato sarà stato pure colto di sorpresa dalla mossa del rovescio del regime a lui favorevole, ma ha subito reagito e si trova in vantaggio. A Sebastopoli, dove ha base la sua flotta del Mar Nero, c’erano già i suoi soldati per il trattato che gli concede l’affitto delle basi. È bastato farli uscire dalle caserme e mandarli ad occupare il territorio. Secondo il rappresentante ucraino all’Onu Jury Sergieiev dopo il 24 febbraio ne avrebbe inviato altri 16 mila di supporto, fino a eccedere il numero concordato e consentito. Nessuno sarà in grado di contarli. In Crimea regna l’ordine dello zar e le truppe ben equipaggiate, senza mostrine sul braccio per mantenere un ipocrita anonimato, hanno conquistato la Penisola senza sparare un solo colpo di fucile, anzi accolti come liberatori dalla popolazione, fatta eccezione per la minoranza di tatari che temono ritorsioni come già con Stalin per la collaborazione fornita al nazismo. Che Vladimir Putin potesse digerire una Crimea sotto il controllo di un governo ostile era un periodo ipotetico del terzo tipo: dell’irrealtà. È il bastione di controllo del mar Nero, la porta verso i mari caldi e se era finita sotto l’egida ucraina è solo per una bizzarria di Nikita Kruscev che la regalò alla sua terra d’origine dopo una formidabile sbronza, almeno così vuole la leggenda (non è leggenda che amasse la vodka). Ma allora, si era nel 1954, erano tutti sovietici e la distinzione una mera formalità amministrativa.
Le possibilità che Kiev possa immaginare una "reconquista" sono zero. Nemmeno i fanatici di "Pravi Sektor" hanno pensato di spedire combattenti per la missione impossibile. Nel conflitto più asimmetrico che la storia recente ricordi, la disparità di forze è clamorosa (vedi sempre la mappa a pagina 32). Putin, ben conscio, lo sa talmente bene da potersi permettere di richiamare nelle caserme i soldati mobilitati al confine, pur tenendo il dito sul grilletto: «Mi riservo il diritto di usare la forza». Nel caso si sentano minacciati i "fratelli separati" che stanno oltreconfine. Parole che riecheggiano quelle di Slobodan Milosevic venti anni fa per giustificare gli interventi in Croazia e in Bosnia. Sempre nel mondo slavo siamo, in fondo.
Lo zar del Cremlino non avrà probabilmente bisogno di arrivare a tanto. Una guerra "vera" non conviene a nessuno. E le parole reboanti che si sentono di qua e di là dal fronte servono a scaldare i motori della diplomazia. Comunque al lavoro sottotraccia, more solito. Una diplomazia che non può prescindere dai conti, quelli economici: che risulteranno decisivi. Ha fatto una certa tenerezza il Segretario di Stato americano John Kerry che, sulla Maidan, ha potuto promettere un miliardo di dollari di aiuti oltre a una consulenza "tecnica" per inventare qualche magheggio finanziario. Quando l’Ucraina, per evitare il default, avrebbe bisogno di 40 miliardi di euro nei prossimi due anni. Perché, altro grosso problema, le casse dello Stato sono desolatamente vuote. Non le possono riempire gli Stati Uniti, nemmeno il Fondo monetario internazionale. L’Europa è arrivata ad offrire la metà del necessario ed è già un grosso sforzo in tempi di crisi. Più munifica potrà essere ancora la Russia, nel caso di un accordo, il più probabile, che riequilibri le tendenze nel Paese e lo riporti alla sua vocazione di Stato cuscinetto disteso su una frattura di mondi. Né di qua né di là. Una Finlandia da Seconda guerra fredda come la nazione scandinava lo fu per la Prima. Che è del resto la soluzione già pronosticata da tempo da Zbigniew Brzezinski, politologo Usa, non a caso di origini polacche: uno che di queste lande se ne intende.
Oltre che quella militare, anche la leva del denaro è nelle mani di Vladimir Putin. La può azionare come vuole. Gazprom ha minacciato la fine del prezzo agevolato sul gas (meno 30 per cento) in seguito ai tumulti. Gli aiuti promessi (15 miliardi di euro) sono congelati in attesa di tempi migliori. Cioè quando l’Ucraina, o una parte di essa, sarà ricondotta (Kiev volente o nolente) dentro quell’alveo Eurasiatico che è la definizione valida per il Ventunesimo secolo del nuovo impero sovietico. È il grandioso progetto di Putin con cui vuole segnare la sua presidenza. E una Russia di nuovo protagonista sulla scena internazionale non può fare a meno dell’Ucraina, oltretutto culla del primo regno russo, 1200 anni fa.
Può fare spallucce, lo zar, davanti ai progetti di isolamento finanziario che vengono studiati nelle cancellerie. Boicottaggio del G8 di Sochi, revisione dei visti, congelamento dei beni dei funzionari russi, sospensione delle trattative bilaterali commerciali, sospensione di esercitazioni e vertici militari bilaterali. Qualcosa di analogo fu minacciato nel 2008 per la guerra di Georgia col pretesto dell’Ossezia del Sud (anche allora c’era un Olimpiade ma estiva, a Pechino). Rimase lettera morta, evaporò nello spazio di qualche mese. Perché piaccia o no, il mondo ha bisogno di buoni rapporti con la Russia. Si tratti di evitare una guerra in Siria come di fare buoni affari. Lo sa bene Angela Merkel impegnata nel durissimo compito di mediatore perché la Germania ha scelto un più vigoroso attivismo in politica estera e ora si trova davanti al primo banco di prova concreto. Lo sa bene l’inglese David Cameron, strattonato dai banchieri della City che dei rubli russi hanno bisogno per fare affari.
Avrebbero dovuto spiegarlo, i maldestri consiglieri, ai ragazzi liberali della Maidan prima di infilarli in un risiko più grande di loro e dalle conseguenze imprevedibili. La piazza di Kiev da attore protagonista è diventata comparsa attonita e in balìa degli eventi. È ancora un soggetto politico ma (copyright di un diplomatico occidentale) «è ridotta al ruolo che aveva il coro nella tragedia greca». Sottolinea coi suoi lamenti gli eventi, senza poter incidere sul destino degli attori.