Giuseppe De Bellis, Rivistastudio.com 4/3/2014, 4 marzo 2014
NON È FINITO
Mentre si toglie i ferretti dai capelli, Gianluigi Buffon riprende fiato. Inspira e butta fuori, perché deve rispondere. Contro il Milan, a San Siro, ha preso undici tiri in porta e quest’anno non era mai successo, né in campionato, né in Champions. Para, Gigi: respinge, devia, blocca. Tranquillo. L’impressione è che nessuno di quegli undici tiri potesse finire dentro, per quelli andati fuori non c’è la controprova. Buffon ha vinto con la Juventus e da solo. Da quanto tempo non si sentiva così? Con lui siamo passati dall’infallibilità al sospetto che fosse finito. Quest’estate, qualcuno lo ricorderà, c’erano state un sacco di mezze frasi o frasi intere su Buffon dopo il gol preso su punizione da Neymar. Lui: «C’era confusione in area, ma comunque ho sbagliato io». Giù la diga. Come se ammettere un errore sia la resa e quindi l’apertura del rubinetto delle accuse degli altri. Perché l’Italia è così: i monumenti non si criticano per paura, non per convinzione. Però se si crepano le certezze o addirittura c’è uno che confessa d’aver sbagliato cambia tutto. Qualcosa tipo «vabbè, se l’ha detto persino lui». Così per tre-quattro giorni, durante la Confederations Cup, il tema fu: Buffon è passato, adesso chi lo sostituirà? Tutto congelato altri tre-quattro giorni dopo, cioè nella finale per il terzo posto, contro l’Uruguay, quando Gigi parò tre rigori. Come domenica sera arrivò riprendendo fiato davanti ai microfoni e, senza togliersi i ferretti, cominciò a parlare: «Adesso sono curioso di sapere che cosa diranno quelli che in questi giorni hanno detto che sono finito. Forse che non lo sono». Quindi ovviamente tutti zitti, preso nota del virgolettato, riportato fedelmente e di nuovo su le maschere di falsi e furbacchioni che mai e poi mai, come no, avrebbero osato parlar male di Buffon.
Gianluigi è il meglio che abbiamo nonostante vada verso la fine della sua carriera. A 36 anni è una constatazione amichevole, un’ovvietà che non può scandalizzare nessuno, tantomeno lui. Forte, sicuro, elastico quanto basta a fargli fare partite come quella contro il Milan, quella in cui mai, nelle undici volte in cui la palla è arrivata in porta s’è avuta la sensazione che potesse prendere gol. Buffon è cambiato molto nel modo di esprimersi e di comunicare, meno in quello di parare. Resta tra i pali, dove ha sempre preferito stare, dove ha una confidenza con lo spazio e con le traiettorie che in pochi hanno avuto nella storia del calcio italiano. Forse nessuno. Non gli piacciono le uscite, adesso gli piacciono ancor meno perché sostiene che il portiere non sia più protetto come un tempo dal regolamento. Qualche mese fa disse: «Non uscirò più». Nonostante tra i pali sia a casa sua, non ama i rigori. Non li para quasi mai, con l’eccezione di quei tre nella finalina della Confederations. In Germania nel 2006, contro la Francia in finale, fu spiazzato sei volte, da Zidane in partita, da tutti gli altri alla fine, compreso Trezeguet. «Da bambino sognavo di vincere le finali ai rigori. Ora no».
La storia degli ultimi 19 anni di pallone italiano ha un sacco di incroci con la carriera di Gianluigi, che esordì il 29 gennaio del 1995, a Parma contro il Milan. Ha passato più di metà della vita giocando titolare in serie A rimanendo sempre allo stesso livello. A quelli che vorrebbero urlare ancora che Buffon è finito ma non lo fanno più per codardia più che per convinzione, va ricordato che Gigi è ancora oggi il secondo portiere più forte del mondo per la classifica dell’International federation of football history & statistic, che piaccia o no ogni anno queste graduatorie le fa. Non piacciono? Allora non deve piacere né il pallone d’Oro né ogni altra classifica individuale per uno sport di squadra. Comunque Gigi è secondo soltanto a Neuer, il portiere della nazionale tedesca e del Bayern Monaco. Grande per questo e per molte altre cose, tra le quali c’è che nella stagione in corso ha un rendimento migliore di almeno altre quattro degli ultimi quindici anni (dati Whoscored.com): dov’è la parabola discendente, allora?
Gigi è cambiato più nella vita che in campo. Ha smesso di essere protagonista a ogni costo: non è più quello che a Parma andò in porta con la scritta “Boia chi molla” e scatenò un caso politico finito con un sorriso e con una battuta. Ora per stanarlo lo inseguono con la storia gossippara della presunta crisi con la moglie e l’invaghimento per Ilaria D’Amico. Come commenta, Gigi? «Non parlo della mia vita privata grazie». Il che mostra la distanza dal se stesso che qualche anno fa invece raccontò molto di sé fuori dal calcio nell’autobiografia pubblicata da Rizzoli. Parlò, come tutti sanno, della depressione e di un sacco di altre cose che hanno reso praticamente tutte le interviste successive al 2008 molto meno notizie di prima. Il Buffon di oggi è il maturo, il saggio, l’esperto. Cioè tutto quello che è senza desiderare fino in fondo di esserlo, perché l’indole e il carattere sarebbero altri più vicini al fancazzismo alla Zenga che alla serietà di Zoff. Non ha amato nessuno dei due: non Dino che quando Gigi aveva neanche sei mesi fu accusato di avere difetti di vista, di stropicciarsi perché miope: «Non vede da lontano». Maledetta Olanda, trentacinque anni fa, mondiale argentino, la retorica perenne della “migliore Italia vista giocare in una coppa del mondo”: diedero la colpa a Zoff per quei gol improponibili da fuori area. Non ha amato anche Walter, che resterà sempre quello del gol di Caniggia più che dello scudetto dell’Inter di Trapattoni. Buffon non ama uscire e quell’uscita non l’avrebbe fatta. Su Gigi si sono fatti i conti: «Io e lui insieme valiamo 20 punti a campionato», disse una volta Trezeguet parlando della Juventus. Quando glielo riferirono Buffon si fece una risatina, ma sapeva perfettamente di essere diverso. Nessun altro portiere negli ultimi quarant’anni è andato più vicino al pallone d’Oro (secondo nel 2006, come Zoff nel 1973), così come mai nessun altro portiere è stato premiato come miglior giocatore della Champions: a lui è successo nel 2003.
La forza di Buffon è stata quella di far smettere definitivamente di pensare che il portiere. Ha scelto tardi di diventarlo, a 12 anni, quando molti già devono arrendersi all’idea che non potranno mai essere giocatori oppure quando è il corpo che ti spinge a sceglierti il ruolo. Centrocampista (così cominciò) non sarebbe stato nessuno, dice qualcuno. Oppure no, perché quelli che l’hanno visto crescere e hanno visto gli altri ragazzi, hanno detto il contrario. Tipo Sergio Vatta, che s’è trascinato i sogni di tre generazioni di baby nazionali: «Il ragazzo più forte che abbia visto negli ultimi trent’anni». Senza ruolo, anche qui, senza divisioni, senza specificare che però lui giocava e gioca da numero uno. Non importa. Si gira e si torna sempre lì, alla diversità che non c’è più, alla fine del ruolo. Calciatore e basta. Piedi, mani, petto, testa. Gigi giocherebbe con la maglia identica a quella degli altri compagni, specie in Nazionale. Alla fine del mondiale di Germania lo raccontò bene: «Ho giocato soprattutto per l’Italia, perché l’orgoglio di essere italiano lo sento sul serio. Non li sopporto quelli che dicono di non tifare per la Nazionale perché c’è questo o c’è quello. Mi stanno sulle scatole e mi fanno anche un po’ paura. Se fossimo in guerra, darei l’anima per salvare un italiano ferito, anche se fosse la persona che più mi sta antipatica al mondo».
Nazionalista per ideale. Quello con la bandiera sulla fronte per tutto il viaggio Berlino-Roma e poi sull’autobus scoperto che portò i campioni del mondo al Circo Massimo. Applausi a lui, all’orgoglio, all’attaccamento. Perché questo era sano, mica qualche settimana prima quando l’Italia aveva già deciso che era un venduto. Due milioni di euro volati, cinquecentomila pare in una botta sola. Cioè la storia delle scommesse, nata in quei giorni prima della partenza per il mondiale tedesco. Nessuna prova e un mare di voci che da allora in poi non sono mai finite: «Io con tutta questa faccenda ho fatto una brutta figura, lo so. Però qualcuno s’è divertito su di me». Gigi fu convocato in Nazionale con riserva, non sicuro di giocare, non certo neanche di poter andare in Germania, con una buona parte del Paese pronto a prenderlo per il nuovo Albertosi, senza pensare che alla fine di Buffon non ti ricordi un solo errore, né una papera, né un rigore procurato. La coppa ha cancellato i sospetti di quel giro, salvo poi riaprirli dopo, nella seconda tranche di scommessopoli. Quando tutti tiravano fuori il suo nome come al bar. “Ah, sì, Buffon: lo sanno tutti che è un malato di scommesse”. Vero o non vero non faceva alcuna differenza, in un Paese in cui la realtà è quella che ciascuno vuole che sia. Così anche le scommesse sono diventate tifo. Il coinvolgimento dei giocatori più forti è vero (senza prove) per i nemici ed è falso (senza prove) per gli amici. Di fatti resta una convocazione davanti ai magistrati proprio a ridosso della fine del mondiale 2006: «Quando mi sono presentato in procura, un pm mi ha detto: ‘Ma lei che ci fa qui?’». In quei giorni strani tutti pronti a tirare fuori il ritratto del giovane a metà: «Uno tra pasticci e miracoli», scrissero. Uno a uno gli episodi guasconi della vita di Gigi presi e documentati: quando scese in campo contro il Valencia con la maglia numero 88. La comunità ebraica protesto contro quel numero usato dai neonazisti come “versione aritmetica di Heil Hitler”. Buffon se ne uscì così: «Siccome in Italia il simbolo del carattere, piaccia o no, sono le palle, io con quel numero volevo mostrare d’averne quattro».
Non è mai stato simpatico fino a quando non è retrocesso, Buffon. Juventino in questo e in molte altre cose. La fine dell’era Moggi, la coincidenza con la vittoria del mondiale, l’obbligo di finire in B, l’hanno ridisegnato agli occhi degli altri, di chi lo aveva raccontato fino ad allora e ne aveva sempre tracciato un ritratto a due facciate: fenomenale in campo e un po’ oltraggioso fuori. Il dopo Berlino ha modificato la percezione, ha costruito sul marmo il monumento di un portiere che non è soltanto un portiere. Lo scalpello per provare a scalfirlo non l’ha preso nessuno fino a quando non ha detto quella frase: «Sì, ho sbagliato io». Nel 2008, all’Europeo, fece un errore grave, contro l’Olanda. Ebbe 5,5 su tutti i giornali e nessuno lo criticò. Cinque anni dopo sì, perché ammettere in questo Paese significa confessare. Che cosa non importa, basta che ci sia il pretesto per poterti attaccare. Come se qualcuno dica: amico, te la sei cercata. Buffon oggi non direbbe mai quella frase sui «due feriti meglio che un morto», per la quale rimarrà, agli occhi dei suoi detrattori e dei tifosi di tutte le squadre fuorché la Juventus, sempre lo scommettitore non beccato. Chiunque abbia giocato a pallone sa che quella frase ha un qualcosa di sportivo ben superiore al suo significato letterale. E non vuol dire affatto che accettare di pareggiare quando non è strettamente necessario vincere ti porti a lucrare su quel pareggio con le scommesse. Ecco, se Gigi fosse mai coinvolto in un’inchiesta e magari anche giudicato colpevole non dovrà essere per quella frase. Invece è sembrato il contrario: cioè che fosse colpevole per quella frase. Oggi non la direbbe, Buffon. Oggi non ammetterebbe neanche l’errore contro il Brasile. Perché dovrebbe farlo? Dovrebbe parare altri tre rigori per poter rinfacciare le cattiverie degli altri e ripetere quello che sanno tutti: che è il migliore, comunque. E che non si vede un altro così.