Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 7/4/2014, 7 aprile 2014
ALLARME SVIZZERA, ADESSO L’EUROPA MEDITI
Equilibrio. È questa la parola chiave che spiega la Svizzera. L’altra è: compromesso. La necessità, a tutti i costi, di trovare un compromesso. A dirlo, in questa fase non facile della storia elvetica, è Marco Solari, 69 anni, presidente del Festival di Locarno, un cursus honorum di tutto rispetto: per anni, dal 1972, direttore dell’Ente Ticinese per il Turismo e dall’88 delegato del Consiglio federale per le celebrazioni del settimo centenario della Confederazione. Nato a Berna da padre ticinese e madre svizzero-tedesca di famiglia protestante, ha frequentato le scuole nella sua città natale, parlando in casa l’italiano, imposto da suo padre perché il ragazzo crescesse bilingue. Università a Ginevra, in Scienze economiche e sociali, con una passione prevalente per la storia. Una nonna paterna molto cattolica che accolse in casa, profugo, Giovanni Battista Migliori, uno dei pilastri della Dc nascente.
«In famiglia — dice Solari — abbiamo sempre sentito l’esigenza di un equilibrio, lo stesso equilibrio su cui si fonda la Confederazione, che sull’asse Nord-Sud è cattolica e sull’asse Est-Ovest è protestante». Solari cita Giovanni Calvino, lo scrittore Jeremias Gotthelf e il teologo sangallese Zwingli. Certo, suona strano sentir parlare di equilibrio dopo la votazione popolare del 9 febbraio, in cui gli svizzeri si sono espressi contro l’immigrazione di massa. «Regioni, cantoni, lingue molteplici. Al suo interno persino il piccolo Ticino ha storie, valori, mentalità, modi di esprimersi diversi: un Sottoceneri che idealmente appartiene all’area lombarda e un Sopraceneri che guarda al Nord, con il Monte Verità che è un vero balcone sulla Mitteleuropa. La cultura politica elvetica ha l’esigenza di tenere in armonia tutte queste varietà straordinarie, tra forze centrifughe e spinte centripete. Per questo il valore più alto è quello del compromesso».
Già, il compromesso interno: a costo di uno squilibrio rispetto all’Europa? Solari sorride. «Lo svizzero sa che acqua e fuoco sono inconciliabili: la democrazia diretta, così come è vissuta da noi, contrasta totalmente con il dirigismo centralizzato dell’Ue, anche quando è a servizio della causa più nobile, e cioè la libera circolazione. Non vogliamo scomparire dentro l’Europa come una zolletta di zucchero nell’acqua. È profondamente ingiusta la reazione europea che tende a demonizzare la decisione svizzera di arginare l’immigrazione: in fondo gli stranieri nella Confederazione sono il 25 per cento della popolazione totale. Senza quell’equilibrio interno che è la nostra ragione di vita diventiamo un’appendice dell’Europa, il Ticino diventa un’appendice della Lombardia e così via».
Qualcuno sostiene però che questo senso di accerchiamento e di minaccia è del tutto anacronistico nel mondo globalizzato. Non è arrivato il momento di rivedere i sacri princìpi che reggono il cosiddetto «Sonderfall», l’idea di separatezza, l’immagine di una Svizzera come caso particolare? «L’esperienza personale — dice Solari — mi ha insegnato, fin dai tempi dei referendum indetti da Schwarzenbach negli anni 70, che il popolo elvetico nelle votazioni ha sempre dimostrato un senso di responsabilità». Anche in tempi, come questi, di grande complessità sociale e di trionfante populismo politico? In fondo, in questa occasione uno scarto di 10 mila voti rischia di avere conseguenze enormi, anche se il Consiglio federale sta già correndo ai ripari mettendo in campo tutte le sue qualità diplomatiche. «Certo, le preoccupazioni sono molto serie e secondo me il principio della libera circolazione avrebbe meritato uno sforzo di comprensione maggiore da parte della Svizzera. Ma anche se personalmente ho votato con la minoranza, accetto le decisioni popolari. È il prezzo della democrazia diretta. L’Europa farebbe bene a considerare il voto svizzero come un grido di dolore e non come una sfida». Solari fa i nomi di Carlo Cattaneo e di Norberto Bobbio, i suoi fari. Risale al Risorgimento per ricordare il contributo dei ticinesi, capaci di sfidare i blocchi austriaci tra il 1848 e il ‘53, la comprensione per gli aneliti lombardi e l’accoglienza di migliaia di profughi anche durante la guerra. «Einaudi, Montanelli, Chiara, Contini, Filippo Sacchi… Nessuno di loro ha mai avuto una sola parola di biasimo nei nostri confronti…».
Il nome di Filippo Sacchi, lo scrittore e critico antifascista, ci riporta in Piazza Grande, a Locarno, dove il giornalista del «Corriere» fuggì dopo l’8 settembre. Anche a lui si deve l’invenzione del Pardo d’oro nel 1946, un’iniziativa che doveva distinguersi dai festival esistenti. La Mostra di Venezia, nata nel ’32, era diventata per anni il vanto di Mussolini e della mondanità fascista in camicia nera e uniforme. Cannes aveva inaugurato la sua Palma alla vigilia della guerra. Per un anno a Mosca Stalin aveva incaricato Eisenstein di mettere insieme una rassegna cinematografica, ma se ne pentì subito quando si accorse di aver affidato il compito a una personalità troppo indipendente e incontrollabile. Nel ’43 a Locarno, Sacchi incontra lo storico dell’arte Virgilio Gilardoni, che allora dirigeva «Il Lavoratore» (periodico del Partito operaio contadino ticinese) e l’antifascista Franco Borghi, due inquieti sperimentatori e amanti del cinema, entra in contatto con la borghesia locale, apre un dialogo, sente che c’è un terreno vivo di idee socialiste e liberali sensibili al nuovo. Non è dunque un caso che proprio nella cittadina ticinese sia nato il Festival cinematografico più libero e sperimentale.
Lugano aveva ospitato per un biennio un festivalino commerciale nel Parco Ciani, — ricorda Solari — ma in giugno la cittadinanza si oppose alla costruzione di un anfiteatro e in tre mesi Locarno riuscì a mettere insieme, con personaggi vicini a Gilardoni e a Sacchi, una rassegna internazionale di tutto rispetto. Partecipò Rossellini, senza successo, con Roma città aperta e furono proiettati ben sei film realizzati a Hollywood, tre dei quali girati durante la guerra: The Bernadette di Henry King, La fiamma del peccato di Billy Wilder e Dieci piccoli indiani , ultimo film americano di René Clair, che sarà il vincitore della prima e della seconda edizione. Rossellini dovrà aspettare il 1948, per vincere, con Germania anno zero . Si guarda a Cinecittà, ma De Sica con Ladri di biciclette vincerà solo il Premio speciale della Giuria. Ricorda Solari: «Quando in Italia il neorealismo ha difficoltà di circolazione, al Grand Hotel sul Verbano arriva O’ sole mio , di Giacomo Gentiluomo, non straordinario ma significativo. È il primo film proiettato al Festival: racconta la resistenza napoletana contro il nazifascismo. E già nella prima edizione il direttore Vinicio Beretta porta Ivan il Terribile , il film di Eisenstein. Il coraggio è il segno distintivo di Locarno, ancora oggi». Arriveranno Fellini e Antonioni, arriveranno Pasolini e Citti, ma si guarda anche altrove: alla Nouvelle Vague francese, ceca, portoghese. I primi quindici anni sono duri: pressioni politiche e commerciali, polemiche, divisioni, ostilità. Solari, presidente da quattordici anni, è difficile che si scomponga, la calma sembra il suo forte. Forse la flemma. Eleganza d’altri tempi. L’ultimo guaio gli è arrivato nell’agosto scorso, con Sangue , il film di Pippo Delbono, in cui compariva l’ex terrorista Giovanni Senzani. «Ma sa, i direttori artistici di Locarno sono i più liberi del mondo», precisa orgogliosamente Solari. «Questo piccolo paese provinciale, che ha avuto una delle prime costituzioni liberali d’Europa, ci tiene molto alla libertà, questo mi affascina, pur conoscendo le gelosie, le ostilità, gli odi… Il Festival è uno specchio, lo specchio di un Paese che resta, nonostante l’ultimo referendum, un paese di grande apertura».
E a proposito di apertura, tra il 10 e il 13 aprile bisognerà salire sul Monte Verità, ad Ascona, dove fu fondata all’inizio del Novecento una comunità di utopisti, vegetariani, naturisti, teosofi… La seconda edizione degli Eventi letterari organizzati dalla Primavera locarnese avrà per tema «I demoni dell’Utopia». Inaugurazione con il premio Nobel tedesco Herta Müller. Seguiranno gli architetti Mario Botta e Vittorio Gregotti. Poi gli scrittori, di varia provenienza: Valerio Magrelli, Nora Gomringer, Durs Grünbein e Valerio Magrelli, Lukas Bärfuss, Fleur Jaeggy, Jonas Lüscher, Anna Ruchat e Urs Widmer. Tra gli altri ospiti Péter Nádas, Joanna Bator, Carlo Ossola, Martin Meyer e Frank A. Meyer. Utopia potrebbe essere una chiave. Per l’Europa e per la Svizzera.