Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 07 Lunedì calendario

MANLIO SGALAMBRO ADDIO AL FILOSOFO DELLA LUCIDA DISPERAZIONE CHE SI CONVERTI’ AL POP GRAZIE A BATTIATO


Avevo conosciuto Manlio Sgalambro sul finire degli anni Ottanta. Due suoi libri, mi avevano colpito per la forza con cui si scagliava contro la vita: La morte del sole e Trattato dell’empietà.
Il primo, folgorante come sanno essere le cose che non ti aspetti. Ricordo che chiesi a Roberto Calasso come quell’autore sconosciuto era giunto all’Adelphi. Mi rispose, come fosse la cosa più ovvia del mondo, di un manoscritto anonimo che sembrava provenire da un altro pianeta, tanto era distante dalle forme con cui di solito la filosofia veniva espressa e raccontata.
Ricordo ancora quel viaggio a Catania. Mi accolse sulla porta di casa di un palazzo ottocentesco. E nel mentre che ci sedemmo il suo cane lupo cominciò ad abbaiare, non c’era verso di farlo smettere. Fino a quando ritrovò in un angolo il suo posto abituale. Smise di infastidirci. Sgalambro commentò: «Vede, in fondo i cani, qui in Sicilia, hanno una storia di miseria. Arredano un paesaggio di rovine. E ci pisciano sopra. Sono l’ultimo avamposto del disfacimento. Qui nel Sud c’è un’espressione per dire che il peggio non è mai morto: mancu li cani.
Siamo in piena etologia della disperazione».
Sì, Sgalambro è stato il più disperato dei filosofi. La disperazione è un orizzonte che manca. Un futuro che non c’è. Una falsa linea di galleggiamento. Un peso che sovrasta e porta a fondo. Era nato a Lentini e avrebbe compiuto novant’anni il prossimo dicembre. In anni giovanili abbandonò il corso di giurisprudenza, refrattario alle costruzioni accademiche. «Se penso alla filosofia che esce dalle università», mi disse, «mi viene in mente un trattato di tossicologia. Un trattato che parla del veleno, ma non è veleno». Contro ogni visione perbenista del pensiero filosofico, contro l’idea che il filosofo
fosse un funzionario dell’umanità o, peggio ancora, come pretese Sartre, un paladino dell’impegno, Sgalambro colse, provocatoriamente, tutta l’irresponsabilità della filosofia: «Il filosofo dice, gli altri agiscono. Ma fra il dire e l’agire non c’è nessun obbligo, nessun legame morale». Mi sembrò plateale. Aveva da poco scritto
Anatol, un libro che nel titolo richiamava un racconto di Arthur Schnitzler. Dove la scrittura confermava la sua vocazione all’aforisma, all’asciuttezza, al colpo di frusta: «Quale linguaggio il filosofare deve avere perché diventi udibile?», si chiese. Evitava, come la peste, la scrittura torrentizia, declamatoria, impositiva: «L’unica misura del pensare è la stanchezza».
Anatol era una riscrittura del Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Una perfetta sovrapposizione al filosofo, che insieme a Nietzsche, aveva alimentato i suoi funambolismi.
In Anatol, come in altre parti della sua opera, Sgalambro aveva sfiorato il tema del suicidio. Dopo Michelstaedter e Renzi, la sua mi sembrava la filosofia più prossima alla morte come libera scelta. «Al suicidio», commentò, «non penso come a un momento di ripiego, al mistero o all’effetto che provoca un intenso dolore. L’unico suicidio che in fondo ammetto nasce da una forma di fusione intima tra la vita e la morte. Ma poi la trappola della responsabilità impone che uno alla fine resti dentro i tabù».
Sapevo del suicidio di un suo allievo. Di un ragazzo che avendo letto i suoi libri si era trovato davanti a una scelta. Non so quanto libera, o influenzata da quel mondo senza uscite che Sgalambro aveva disegnato. Rispose di non sentirsi responsabile di quella morte, ma che la libera morte che quel giovane si era dato non aveva liberato il filosofo dal dramma, da quel volto che ogni tanto tornava a comparirgli.
Mi sembrò che nel suo pessimismo, forse troppo levigato e compatto, affiorasse un’increspatura. Una difficoltà ad accettarsi fino in fondo. E a prendersi davvero sul serio. Credo che tutta l’opera di Sgalambro sia stata un’immensa e paradossale costruzione volta a un pessimismo comico più che cosmico. In questa chiave è possibile comprendere il lungo e fecondo sodalizio musical-filosofico con Franco Battiato, che ha prodotto album firmati a quattro mani, tour, spettacoli teatrali, libretti d’opera e soprattutto testi di grandi canzoni, come La Cura.
E a cui vanno aggiunte collaborazioni - nella veste di paroliere - con Patty Pravo, Alice, Carmen Consoli, Milva, Adriano Celentano. Le sue apparizioni televisive lo hanno reso popolare tra il grande pubblico. E hanno dato al suo nichilismo una venatura surreale. Pensava che la filosofia per gli eccessi mentali si fosse trasformata in spazzatura e che il filosofo fosse diventato una specie di “acchiappatutto”: una figura intransigente e clownesca. Guardavo, su Youtube, una delle sue performance più riuscite. In mezzo a un coretto di ballerine cantava Me gustas tu.
Sgalambro si era trasformato in una forma antiquariale del postmoderno.
Nell’ultima conversazione telefonica che avemmo l’anno scorso mi parve più ilare, meno scontroso. Mi disse che non credeva, anzi che non aveva mai creduto alle filosofie problematiche e che la filosofia doveva offrire della soluzioni: «Guardi non ci crederà, ma a volte mi sono improvvisato maestro di felicità».