Marinella Venegoni, La Stampa 7/2014, 7 marzo 2014
LA STRANA COPPIA DI CATANESI OSCURI
«Sono un pessimista strutturale: perseguo un pessimismo metodologico per esempio analizzando i limiti del mondo come la morte che ci stringe e ci strangola». Era il 2001, quando Manlio Sgalambro mi propinò questo bignamino ultrasuccinto delle sue appartenenze filosofiche, che torna rivelatore oggi che se n’è andato. Come sempre, si divertiva a mescolare l’alto e il basso, e il serio e il faceto, visto che si era alla presentazione del suo primo e unico album solista «Fun Club», uscito quando aveva 77 anni: dove ulteriormente sgretolava i paludamenti e le barriere dell’accademia della quale, come filosofo, mai ha fatto parte, in una vocazione ribalda e divertita alla libertà.
Debuttava a quella già veneranda età, precedendo di un decennio il giovanilismo senile che ora va tanto: diventava garbato chansonnier di canzoni della propria epoca, fra «Non dimenticar le mie parole» di D’Anzi e «Donna» di Gorni Kramer. Idee che potevano solo venire a uno come Franco Battiato, il suo sodale. Più che cantare, porgeva: con un gusto della parola, e una musicalità interna che poi risaltavano quando l’artista lo faceva uscire sul palco, da solo, in un siparietto gustoso: finché non si avventurava in «Me gustas tu» di Manu Chao, e cantalenando le ritmiche dondolanti sorprendeva il pubblico e forse anche sé stesso. Si attardava ogni volta civettuolo, divertito dagli applausi e dalle belle ragazze.
Sì, Manlio Sgalambro era anche civettuolo, come poteva esserlo uno studioso siciliano d’altri tempi sempre orgogliosamente impegnato a far scuola a sé e ad andare contromano, finché non aveva incontrato nel ‘93 Franco Battiato, come lui catanese d’elezione, alla presentazione di un libro. In pochi giorni era diventato quasi magicamente il suo alter ego, in una comunione di intenti nata sulla proposta del musicista di scrivere il testo per «Il cavaliere dell’intelletto», poi proseguita con altre opere impegnative come «Socrate Impazzito», «Gli Shopenhauer», «Telesio» e oltre, film come «Perduto Amor» e «Musikanten», eventi tv.
Ma il binomio Battiato-Sgalambro che ha reso famoso il filosofo, è stato quello degli album pop: da «L’ombrello e la macchina da cucire» a «L’imboscata», «Gommalacca», «Ferro Battuto», «Dieci stratagemmi», «Il vuoto», «Apriti sesamo», è stata un lunga collana di collaborazioni. Punto più alto, «La cura» del ‘96, uno dei brani più struggenti e amati del loro repertorio comune. Negli interstizi, Sgalambro scrive occasionalmente testi per altri, Patty Pravo o la Mannoia, e anche canzoni per bambini.
Con Battiato, si sono sempre dati del lei. Un rapporto formale, ma assai confidenziale; nelle conferenze stampa spesso si scambiavano sorridendo le risposte. «Dire che è un amico è un fatto privato. Ma è anche una persona con la quale soffriamo e lavoriamo. Siamo due che produciamo», mi disse sempre in quel giorno del 2001.