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 2014  marzo 06 Giovedì calendario

CRIMEA – QUELLA PENISOLA DI NESSUNO ETERNA TERRA DI CONQUISTA


La Crimea non appartiene “storicamente” a nessuno: luogo di migrazioni e rimescolamenti costanti, e bersaglio di pianificazioni violente che volevano svuotarla o ripopolarla, essa è divenuta negli ultimi due secoli, contro la sua storia, un simbolo del nazionalismo russo, come dimostra la crisi di questi giorni tra l’Ucraina di cui la penisola fa parte e Vladimir Putin pronto a invaderla per difendere la maggioranza russa della popolazione. Prima però la penisola era statacolonizzata da greci, romani, bizantini e genovesi e solo nel 1783 la vittoria di Mosca mise fine a lunghi secoli di dominio ottomano. Le decine di migliaia di tatari e musulmani che allora l’abbandonarono furono sostituiti con una colonizzazione imperiale, e quindi non etnica, che vide stanziarsi nella regione slavi, anabattisti tedeschi, greci ortodossi, armeni, ebrei e anche piccole comunità italofone.
Nel 1854-55, tuttavia, l’accanita difesa opposta dalla città-fortezza di Sebastopoli all’assedio franco-britannico avviò la trasformazione di questa penisola dallo spiccato carattere plurinazionale in un’icona del nazionalismo russo risvegliato qualche decennio prima dall’invasione napoleonica. La capitolazione della guarnigione, di cui aveva fatto parte anche il giovane Tolstoj, fu infatti trasformata in una nuova epopea della resistenza russa all’Occidente e in un segnale della necessità di riforme che rendessero vittoriosi i futuri confronti con quella parte di mondo.
Subito dopo la sconfitta, militari incattiviti e un’amministrazione ostile spinsero quasi 200.000 tatari, forse due terzi della popolazione originaria rimasta, a partire per l’impero ottomano, e la penisola fu così oggetto di nuove immigrazioni nonché di insediamenti estivi della corte e della nobiltà. La sua bellezza e il suo passato classico ne fecero anche un luogo ideale della cultura russa.
Essa sarebbe poi divenuta durante la guerra civile una roccaforte bianca e nazionalista, l’ultima regione a essere evacuata dalle sconfitte forze antibolsceviche. Proprio per ripulirla dai lasciti di quella presenza, i bolscevichi vi applicarono alla fine del 1920 forse la prima esecuzione pianificata di circa 12.000 giovani ex ufficiali bianchi, condotta con modalità che ricordano da vicino quelle che avrebbero regolato venti anni dopo l’eliminazione degli ufficiali polacchi a Katyn.
Nel primo decennio sovietico, il contenimento poi del nazionalismo russo andò di pari passo con una politica favorevole alle minoranze, e quindi in Crimea ai tatari, che lo zarismo aveva tanto represso. Ma la svolta staliniana del 1928-29 portò alla ripresa di un’aggressiva politica anti-straniera: proprio per il carattere cosmopolita della sua popolazione, la Crimea soffrì particolarmente delle purghe e del terrore scatenato contro le minoranze nazionali nel 1936-1938, anche allo scopo di “purificare” le regioni di confine. Fucilazioni e deportazioni di massa ridussero allora la presenza dei non slavi, e anche la piccola comunità italiana fu perseguitata.
Tre anni dopo, gli invasori tedeschi sottoposero Sebastopoli ad un secondo assedio, durato anch’esso più di un anno e costato decine di migliaia di morti. La retorica sovietica e ormai filorussa del regime staliniano celebrò allora la città-eroina i cui difensori si erano battuti come e più di quelli zaristi per fermare un nemico in arrivo da Occidente. Sebastopoli divenne così anche in Urss il simbolo della resistenza russa a un’Europa nemica, un discorso che ha trovato negli ultimi anni grande spazio nelle pubblicazioni favorevoli al regime di Putin, spesso esaltato come riunificatore delle “terre russe” contro un’America ostile e un’Europa aliena, accusate di aver tramato alla fine degli anni Ottanta coi traditori della perestrojka per svendere a un corrotto Occidente la più pura e diversa civiltà russa.
Nel 1944 la sconfitta tedesca provocò un nuovo e radicale mutamento nella popolazione della penisola: i suoi ebrei erano stati sterminati; molti degli slavi erano stati evacuati prima dell’arrivo dei tedeschi o ne erano stati scacciati per ordine di Hitler, che voleva fare della regione un insediamento germanico; i vecchi coloni di ceppo tedesco seguirono la Wehrmacht in ritirata, e subito dopo la vittoria Stalin ordinò la deportazione dei tatari rimasti, accusati di collaborazionismo con gli invasori.
Si pose quindi il problema del ripopolamento della Crimea e già nel 1944 Kruscev propose che esso fosse fatto da ucraini, cui la regione andava assegnata in ricompensa delle loro sofferenze. Stalin rifiutò. Poco più tardi, la proposta di stabilire in Crimea una repubblica autonoma ebraica, anch’essa intesa come compenso per le stragi naziste, fu uno dei capi d’accusa in base ai quali fu sterminato il Comitato antifascista ebraico sovietico.
La regione fu quindi insediata essenzialmente da russi e ridivenne sede della flotta, simbolo del loro nazionalismo e luogo di vacanze di buona parte dell’alta nomenklatura moscovita. Arrivato nel 1953 al potere, però, Kruscev tornò alla sua vecchia idea, e non certo in un momento di ubriachezza decise di assegnare la regione all’Ucraina, di cui non aveva mai fatto parte. Allo stesso tempo egli confermò nel 1956 il divieto ai tatari di tornarvi, unico popolo che quindi non riebbe con la destalinizzazione il pieno ristabilimento dei propri diritti.
Solo alla fine della perestrojka il divieto fu abolito e la Crimea riacquistò così almeno in parte il suo carattere multinazionale. Oggi una maggioranza di russi vi convive con circa un 25 per cento di ucraini e un 15 per cento di tatari: si potrebbe pensare che il problema posto da una penisola dal passato così complesso, e con una popolazione dotata di una così forte tendenza alla differenziazione, meriterebbe forse soluzioni politiche speciali e condivise, fondate su larga autonomia, forte apertura e garanzia dei diritti di tutti i suoi abitanti.