Maurizio Ricci, la Repubblica 6/3/2014, 6 marzo 2014
GAS, GRANO E LA MINACCIA DI SANZIONI LA VERA PARTITA TRA CREMLINO E OCCIDENTE
PIÙ che un braccio di ferro, è una partita a scacchi, in cui ad ogni avanzata corrisponde una ritirata più o meno equivalente e in cui i contendenti devono tener conto di fattori apparentemente marginali, ma, potenzialmente, decisivi. Ad esempio, l’Europa — o, almeno, il governo inglese — non può non prestare orecchio alla potente lobby immobiliare di Londra, convinta che bloccare i viaggi degli straricchi russi farebbe crollare il mercato delle case di lusso ed esplodere la bolla dei prezzi. Ma anche Putin deve preoccuparsi della reazione popolare che scatenerebbe — in caso di embargo commerciale — la scomparsa dagli scaffali dei supermercati della carta igienica, come ai tempi sovietici. Perché la Russia non è l’Iran, i legami economici, finanziari, commerciali sono fitti e stretti, ci arrivano fino in casa: senza i soldi dello sponsor Gazprom, il gigante russo, la Champions League del calcio sarebbe più povera e due squadre come Chelsea e Shalke04 dovrebbero rivedere gli ingaggi dei giocatori. Per farsi meno male possibile, bisognerebbe intervenire non con l’ascia, ma con il bisturi del neurochirurgo. Difficile quando, sul terreno, si sente il battere degli stivali dei soldati e in ballo ci sono sogni geopolitici curati a lungo.
Gli interessi in gioco sono molti e importanti, anche a guardare alla sola Ucraina. Adesso, con l’inverno, i campi sono spogli e deserti, ma un ipotetico collasso del paese e dell’economia determinerebbe, probabilmente, una crisi alimentare a livello mondiale e un’esplosione dei prezzi del frumento. L’Ucraina è il nono produttore al mondo di grano, ma è il sesto esportatore: senza i suoi 10 milioni di tonnellate, il mercato internazionale, questa estate, andrebbe in fibrillazione. Nell’immediato, tuttavia, tutti guardano al gas. L’Ucraina non ne produce, ma sul suo territorio passa “Fratellanza”, il gasdotto che porta all’Europa il 15 per cento del suo fabbisogno annuale, metà delle esportazioni di Gazprom verso occidente. Già due volte, nel 2006 e nel 2009, i russi hanno bloccato il flusso, accusando Kiev di inadempienze contrattuali, ma, di fatto, ricattando l’Europa con la minaccia di lasciarla senza gas, al freddo e al buio. Vale ancora questa minaccia? Nell’immediato, no e, probabilmente, Putin lo sa benissimo.
L’inverno sta finendo e, ha detto ieri il presidente dell’Eni, Scaroni, i depositi europei sono pieni. Qualche problema potrebbe esserci l’anno prossimo. Ma Putin, dicono gli esperti, dovrebbe stare attento a tirare la corda. Di metano, in giro, ce n’è molto e trasportarlo liquefatto sulle navi è sempre più comune. Mosca deve stare attenta a non spingere il suo principale cliente a cercare nuovi fornitori: metà degli incassi dell’export russo viene dal metano.
L’altra pedina, nella partita fra Mosca e l’occidente, è il petrolio. Ricca fonte di incassi per il Cremlino: la Russia è uno dei giganti, da cui esce il 13 per cento del greggio mondiale. Tentare di bloccare le esportazioni — come fatto con l’Iran — di un produttore così importante è un boomerang. Il prezzo del greggio salirebbe e la Russia, vendendo ai neutrali, ci guadagnerebbe: 60 centesimi di tassa sull’export in più, per ogni dollaro di aumento del barile. Ma neanche Putin può stare tranquillo: Obama potrebbe reagire cancellando il divieto di esportazione del greggio made in Usa, inondando almeno per qualche anno il mercato.
Petrolio, d’altra parte, fra Russia e occidente, non è solo barili. Molti manager europei ed americani, in queste ore, si stanno interrogando nervosamente sui loro investimenti. Praticamente chiunque conti qualcosa nel mondo dell’energia ha pesantemente investito in Russia in questi anni e ha stretto accordi con i giganti russi, Rosneft o Gazprom: Exxon, Shell, Bp, Total, Eni, Enel, anche la Saras dei Moratti. Ma il destino di quegli investimenti sta a cuore anche ai russi, che hanno bisogno di soldi e tecnologie per sfruttare le loro risorse. Lo stesso discorso — e la stessa ambivalenza — valgono in generale: il 75 per cento gli investimenti esteri in Russia viene dalla Ue. Mosca ci tiene, probabilmente, quanto chi ha sborsato i soldi. Dalla General Electric alla Renault, la cui joint venture con Avtovaz copre quasi il 30 per cento del mercato delle auto nel paese. In caso di embargo commerciale, i russi rischiano di veder svanire carta igienica e yogurt, ma gli europei il 40 per cento dei ricavi globali (la birra Carlsberg) o il 10 per cento delle vendite mondiali (lo yogurt Danone).
E se fossero i russi a fare la voce grossa? Oltre a gas e petrolio, Putin dispone di una carta finanziaria. Anni di incassi sul petrolio hanno gonfiato le riserve valutarie di Mosca. L’ipotesi che volti la schiena al dollaro, magari per riversare il patrimonio in euro è assai complicata. Ma Putin potrebbe minacciare di vendere il suo portafoglio di titoli del Tesoro Usa. Solo cinque paesi (Cina, Giappone, Brasile, Taiwan e Svizzera) hanno, in effetti, in cassaforte più titoli pubblici americani del Cremlino. Ma, a parte Cina e Giappone (oltre mille miliardi di dollari), non paiono pacchetti decisivi. Una svendita dei 160 miliardi di dollari di titoli in mano ai russi non sconvolgerebbe un mercato che, solo di titoli in mano agli stranieri, ne vale oltre 5.500 miliardi.