Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 6/3/2014, 6 marzo 2014
MARCO GIAMPAOLO, IL MISTER CHE SA DIRE NO
Marco voleva andarsene lontano, ma per educazione è tornato sul luogo del delitto. Piccolo indiano di un universo in decomposizione, il saggio apache Giampaolo Marco ha deciso di non morire per una seconda volta. Sotto le volte bresciane del suo ultimo indirizzo, il padrone del vapore Gino Corioni, presidente di una truppa in rotta in grave crisi di risultati e di identità, aveva deciso di restituire quella professionale a Giampaolo e si era dato da fare per riportarlo a casa e consegnargli nuovamente copricapo, fischietto e tuta da tecnico in carriera in Serie B.
Si erano separati in malo modo al tramonto del 2013, Giampaolo e il Brescia, terminata l’istruttoria di un grottesco processo popolare legato alle ascendenze, alle origini e alla geografia sentimentale del suo vice designato Fabio Gallo. Aveva giocato a Bergamo, nell’Atalanta, Gallo. E tanto basta, in luoghi in cui il campanilismo batte rintocchi al di fuori delle epoche, per meritarsi la propria stella gialla. Giampaolo aveva assistito al suo tormento estivo. Osservato la rinuncia all’incarico, il suo allontanamento a tavolino “per non creare problemi”, sopportato la giubilante danza etnico-tribale degli ultras con lo scalpo del nemico in bella vista. Era rimasto al confine della solitudine. Evitando di guardare in faccia la realtà. Nascondendosi la verità.
Poi, vinto dal pentimento, dal peso della mancata reazione d’orgoglio e dai dèmoni, a guerra finita aveva scelto l’autoesilio. L’altroieri Corioni ha provato a farlo terminare. Blandizie, segnali di fumo e minestre riscaldate di cui Giampaolo, spento il fuoco della tentazione, non ha voluto neanche sentire l’odore. Così a mezzanotte di lunedì, mentre si immolava al déjà vu di una vita (contratti strappati, ritorni impossibili, rinunce economiche, seconde occasioni rifiutate per un anacronismo chiamato dignità) uscendo dalla villa di Corioni, Giampaolo sembrava un po’ il Jep Gambardella di Sorrentino.
UN UOMO LIBERO, non innocente, consapevole del contesto, fermamente intenzionato a non tradirsi e non recedere dai propositi di libertà: “La scoperta più sorprendente che ho fatto dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Ad agosto Giampaolo ne avrà 47. Quasi 5 decenni di pallone trascorsi tra imprese di retroguardia, piccoli altari da venerato maestro di provincia, lezioni, esoneri e spiccata propensione individuale a non finire nel limbo dei soliti stronzi. Da molto tempo, strappato il velo della rispettabilità borghese (che nel più conservatore e reazionario dei mondi, il calcio italiano, ha la sua porca importanza) Giampaolo ha smesso di preoccuparsi di quel che dicono di lui colleghi, amici e serpi in seno. Un pazzo. Un disturbato. Un eretico. Un diverso. Un idealista. Uno che rinuncia ai soldi e assalito dai parenti ingordi torna sempre, da signor Hood a disagio con i canestri di parole, sulla strada di Pescara. A Giulianova. Dove per tutti, Marco Giampaolo fratello di Federico, è solo il figlio di un muratore e di un’operaia, degli emigranti svizzeri che un giorno collegarono Bellinzona all’Abruzzo per un viaggio di sola andata. I ritorni costano. Sono improbabili. Così senza passato alle spalle e con il futuro incerto, Giampaolo non si domanda più se il suo passo abbia lasciato un segno. Se segnalare lo strapotere dei tifosi non abbia reso il branco ancor più forte, tronfio e impavido. Avanza in solitudine ai confini del proprio mestiere.
SENZA NEANCHE un’isola da promettere a un Sancho Panza di risulta. Ormai troppo distante dall’alveo in cui gli allenatori vengono licenziati e poi, da separati in casa, i padri-padroni alla Zamparini, alla Preziosi o alla Pulvirenti – ma qui la conta è stolida perché alla moda non è estraneo nessuno – tengono a libro paga per il lusso di trattarli da bagasce e richiamarli in servizio a seconda del vento, del desiderio, dell’inclinazione del momento. A questo gioco asfittico, Giampaolo ha preferito la libertà di respirare. Rompendo un’eterna consuetudine di silenzi e reciproca convenienza. Sottraendo la G del suo cognome alle regole non scritte della caserma e a un affollato alfabeto di colleganza recentemente declamato, solo per restare al lampo ipercontemporaneo da Di Francesco e Maran.
Giampaolo non abita più qui. Si è spostato altrove. Nelle storie prevertiane del suo mèntore Giovanni Galeone. Quelle in cui si sogna di attaccare, ma ci si trova costretti a difendersi fino a sparire. Quelle in cui i saltimbanchi alla Sliskovic con etichetta annessa: “Il Maradona dei Balcani” fumavano Marlboro arando la spiaggia fino all’alba. Gente che avrebbe potuto frusciare nel denaro, ma non aveva il talento di chinare il capo a comando.
Giampaolo è sullo stesso lungomare. Dove a salvarlo non arriveranno i buoni perché pur avendone la possibilità, l’alieno Giampaolo non si è stretto alla boa come più di un grillo parlante si era affrettato a consigliare. Ora da marziano alla deriva, da titolare unico della propria coscienza senza più armadi da svuotare, Marco è già dall’altra parte della luna. Nel luogo in cui non ci sono scrivanie e progetti. Nel laboratorio insonorizzato in cui le ironie dell’ambiente sono una voce indistinta. Diranno che ha esagerato. Distanzieranno dal gregge la pecora nera, l’elemento spurio, il rompicoglioni. Ma t’ j ov ’ a fa sa manù. Quando gli chiedono se gli convenga, a Giulianova, Marco Giampaolo tira giù il cappello. Un lieve inchino. La schiena dritta. L’orizzonte largo. È difficile capire cos’è, ma dev’essere strada.