Pino Corrias, Il Fatto Quotidiano 6/3/2014, 6 marzo 2014
CANI E VINO, IL PODERE DI D’ALEMA E LA RITIRATA VELENOSA DI UN LÌDER
La passeggiata di Massimo D’Alema tra le terre emerse della sua proprietà umbra fatta in compagnia di Alain Friedman – tra ulivi secolari “che valgono millecinquecento euro, pensa, millecinquecento euro l’uno!” e cani “che non mordono, ma direttamente uccidono” – è un prezioso capitolo sui danni, anche psichiatrici, a cui conduce la deriva del potere e del potente quando corrosi dalle alte temperature della solitudine, del narcisismo ferito e del rimpianto non più riconciliato: “Mi occupo dell’Italia solo nelle pause, tra un impegno internazionale e l’altro”. Ma per fortuna è anche una irresistibile gag comica (per quanto involontaria) di eterna commedia italiana. La quale non conduce mai alla scespiriana tragedia. Ma finisce sempre per riconciliarci con questo amato Paese eternamente fatto di macerie e maccheroni. Perché tra le sue immense risorse (specie emotive) sopravvive la capacità di guardare con un certa tenerezza persino i titolari delle suddette macerie (e maccheroni). In fondo anche loro vittime del crollo, e del troppo sugo, come il Berlusconi impietosamente struccato nelle foto del Sunday Times. O in questo commovente D’Alema danzante, in bianco padronale, che di vigna in vigna, si riempie gli occhi contabilizzando le sue soleggiate proprietà: “Quella collina fa parte dell’azienda, diciamo, e poi anche il versante che non si vede… E anche laggiù, fino a quella altura…”.
ESTENSIONI che deglutisce goloso, preparandosi a esibire le sue nuovissime competenze enologiche: “Facciamo due vini. Uno in purezza senza solfiti. L’altro più strutturato”. E pazienza se “purezza” non vuol dire “senza solfiti”, quello che conta è il braccio teso ad accarezzare il vasto orizzonte campestre che dovrebbe stupirci: “Massì, siamo una piccola azienda agricola, diciamo, che dà lavoro a più di qualcuno”. Ed ecco, dal viottolo, sbucare un cane, che lo sollecita a tranquillizzare l’ospite: “É un cane buonissimo”. Buonissimo? Non del tutto: Be’, se percepisce il pericolo, uccide”, sogghigna. Gli piace la perentorietà del verbo. E quello che gli ispira: “Sempre obliasti, Aiace Telamonio/ogni prudenza in guerra, ogni preghiera”, che poi sarebbe un Cardarelli novecentesco (e ridondante) che recita per presentarci non sé medesimo, ma il cane: “Ecco lui è Aiace, l’unico maschio dell’allevamento”, a confermare un sottinteso, oppure un riverbero, tra le qualità del cane e del padrone, la capacità di uccidere dell’uno e di andare in guerra dell’altro. Che è intrinseca biografia offerta all’anglo giornalista. E privato turbamento, per essersi intestato la sola guerra italiana a non essere rinominata “missione di pace”, quella contro la Serbia, anno 1999, 10mila obiettivi bombardati in due mesi, con il plauso di Cossiga e della Nato, più gli sghignazzi della destra, compiaciuta per come si mostrava al mondo l’ex pioniere del Pci di Togliatti arrivato finalmente a manovrare non solo i bottoni, ma anche gli otturatori del potere.
E ora un potere al tramonto lo assedia, proprio lì, tra Narni e Otricoli. Al punto che i 15 ettari di azienda agricola, battezzata proustianamente La Madeleine, che è come dire Nostalgia, non fanno che moltiplicare il rimpianto che emana. A dirne la fissità rurale, il ripiegamento provinciale, dopo le molte avventure di palazzi romani finite in sconfitte. Dopo i marosi cavalcati su Ikarus. E le altrui scale della politica traversate su scarpe cucite a mano. Tutti i residui di quelle fascinazioni danarose – “D’Alema piace alla destra perché anche lui disprezza la sinistra” – sono in questa risacca di nobiluomo in ritiro volontario e sdegnoso. Non rottamato da altri, sia chiaro. Che lo fanno assomigliare allo straziante protagonista dell’Ultimo nastro di Krapp di Beckett, assediato dagli anni ormai trascorsi. Ma sempre raccontandosi come l’eterno viaggiatore del film Tra le nuvole (lo nota Giuseppe Salvaggiulo nella notevole biografia Il peggiore) quando incanta gli anziani nelle feste di paese “con le sue fantasmagoriche avventure planetarie”. “Recentemente sono stato in Brasile”. “Vengo da New York, tutti gli anni partecipo all’assemblea della Clinton Foundation, di cui sono socio”. “Io sono stato al congresso dell’Spd a Berlino”. “Noi abbiamo fatto un convegno a Parigi”. “Arrivo da Bruxelles, sto per partire per la Cina, vuol vedere il visto?”.
È COSÌ che riemerge ogni tanto, elegantissimo, tiratissimo, ospite di Lilli Gruber - “Sono appena rientrato dalla Polonia, è successo qualcosa?” - gonfio di stizza e indispettito. Indispettito dalle domande. Indispettito dall’Italia, dalla bassa politica, da Matteo Renzi, “il ragazzino”. Ma specialmente dal vuoto. “D’Alema non ha più nulla di politico – dettò il suo ex maestro di sartoria Claudio Velardi - . Lo dico con affetto antico che sconfina nella tenerezza e nella pena. Ha imboccato una deriva triste e biliosa. Ormai siamo nella psicologia non è in pace con se stesso”.
Molti anni fa, quando ancora si immaginava skipper d’ogni corrente, diceva: “Andare a vela è un grande insegnamento per la politica e la vita. In vela sai che non puoi andare controvento, ma sai pure che piegandoti di 30 gradi, puoi risalirlo. Questo è un insegnamento per la vita: se non ti pieghi non vinci”. Peccato che a forza di piegarsi, senza mai andare controvento, abbia perso (quasi) tutto. Perché continua a guardare senza vedere. Neanche con i suoi ulivi ci riesce, pensa che siano soldi sonanti, invece che vita.