Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 6/3/2014, 6 marzo 2014
IL “METODO ESPOSITO”
Un giorno o l’altro qualcuno dovrà vergognarsi e chiedere scusa al giudice Antonio Esposito, presidente della II sezione della Cassazione. Bisogna tornare indietro agli anni d’oro di Mani Pulite per trovare una campagna di screditamento così forsennata contro un magistrato onesto. Una campagna talmente trasversale che, a spiegarla, non basta neppure la sentenza di condanna di B. nel processo Mediaset. Infatti c’è dell’altro: Esposito, oltre ad aver seguito con rigore e serietà una montagna di mafia e/o malaffare politico e finanziario, l’11 giugno 2013 ha presieduto il collegio che ha respinto la ricusazione presentata dall’ex capitano Giuseppe De Donno contro il gup di Palermo Piergiorgio Morosini, un altro giudice onesto e coraggioso che aveva rinviato a giudizio tutti gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia. Su quella ricusazione i molti amici degli imputati politici, dal Quirinale in giù, avevano puntato tutte le speranze di far saltare il processo. Che invece, grazie a Esposito, riprese subito spedito davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Un mese dopo, il 9 luglio, Esposito divenne assegnatario – come presidente di turno della sezione feriale della Cassazione – del processo Mediaset. E il 1° agosto lesse il dispositivo della condanna che ha terremotato la politica italiana tutta, mettendo in crisi le larghe intese che sorreggevano il governo Letta-Berlusconi-Napolitano. Poteva Esposito pensare di passarla liscia, dopo aver fatto il proprio dovere non una, ma due volte nel giro di un mese nei due processi più temuti dal sistema di potere che infesta l’Italia? No che non poteva. Aggredito per tutta l’estate da una campagna politico-giornalistica berlusconiana e mai difeso da chi avrebbe dovuto, cioè il centrosinistra e soprattutto il Quirinale e il Csm, Esposito finì addirittura alla sbarra a Palazzo dei Marescialli, con proposta di trasferimento d’ufficio, per un’intervista (manipolata) a Il Mattino.
Era accusato di aver anticipato le motivazioni della sentenza Mediaset prima che fossero depositate. Accusa che tutti sapevano fin da subito essere falsa: nel testo concordato con il giornalista, l’intervista non conteneva alcun accenno – né nelle domande, né nelle risposte – a B. o al processo Mediaset. Il giudice, parlando in generale di questioni giuridiche, aveva soltanto spiegato che la formula “non poteva non sapere” non esiste in diritto: per condannare un imputato bisogna dimostrare che sapeva o che faceva. La domanda “Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?”, fu aggiunta dal giornalista sul testo già concordato via fax e all’insaputa del giudice, così da poter sparare un bel titolo su B. “condannato perché sapeva”. A novembre, dopo tre mesi di graticola, il Csm dovette arrendersi a un’evidenza chiara fin da subito e archiviare il trasferimento di Esposito. Ma i consiglieri Pdl, per sfregiarlo ugualmente, proposero di inserire una nota di demerito nel suo fascicolo personale: proposta fatta propria a fine febbraio dalla IV commissione del Csm. Così lo sputtanamento continua alla vigilia della decisione del Consiglio giudiziario, che ogni quattro anni deve confermare o revocare gli incarichi direttivi ai giudici “apicali”. La speranza dei molti nemici di Esposito è che venga cacciato da presidente della II sezione. E non è detto che restino delusi: il Consiglio giudiziario doveva esprimersi il 3 marzo, ma ha stranamente rinviato il verdetto senza fissare la nuova data. Così l’assedio a Esposito prosegue, a tenaglia, da tre fronti: non solo la IV commissione del Csm e il Consiglio giudiziario, ma anche la Procura generale della Cassazione. Ieri infatti fonti del Csm, violando il segreto d’ufficio, hanno fatto trapelare ai giornali che il Pg Gianfranco Ciani ha avviato l’azione disciplinare contro Esposito, sempre per l’intervista al Mattino; e qualcun altro, in barba al segreto investigativo, ha spifferato al Corriere la notizia di un’indagine a Brescia sul figlio di Esposito, Ferdinando, pm a Milano.
Naturalmente il Corriere ha fatto benissimo a pubblicare la notizia. Ma il fatto che quella su Esposito figlio sia uscita in contemporanea a quella, pure segreta, sull’azione disciplinare contro il padre autorizza qualche sospetto. L’inchiesta su Ferdinando, comunque si concluderà, non riguarda in alcun modo Antonio (si ipotizzano incontri del giovane pm con B. ad Arcore che, se anche fossero avvenuti, risalgono a mesi prima del 1° luglio, quando il processo Mediaset approdò in Cassazione, e del 9 luglio, quando fu assegnato al presidente Esposito). L’azione disciplinare contro Antonio invece si fonda (si fa per dire) su un capo d’incolpazione a dir poco lunare: Esposito è accusato di avere danneggiato gli altri quattro membri del collegio del caso Mediaset con l’intervista in cui non parla del processo Mediaset; di avere scavalcato un fantomatico “ufficio stampa della Cassazione”, che notoriamente non esiste; e di aver sollecitato l’intervista al Mattino, mentre l’intervistatore ha più volte dichiarato (al manifesto e a Tempi) che fu lui a chiamare Esposito e non viceversa. Insomma, tre accuse palesemente e notoriamente farlocche. In attesa che lorsignori se ne accorgano, Esposito rosolerà sul girarrosto per qualche altro mese, così intanto magari verrà cacciato dalla II sezione e i mandanti della vergognosa campagna saranno soddisfatti.
Naturalmente il “metodo Esposito” non si applica solo a Esposito, ma a chiunque altro disturbi i manovratori. Ne sa qualcosa il pm Nino Di Matteo, che sostiene l’accusa nel processo Trattativa e coordina le nuove indagini collegate: dal giugno 2012, quando il Quirinale lo “segnalò” al Pg Ciani perché lo sistemasse a dovere, è nel mirino del Csm, anche lui per un’intervista: aveva osato spiegare a Repubblica cosa prevede la legge nel caso di intercettazioni indirette penalmente irrilevanti. Siccome però si riferiva a quelle di Napolitano con Mancino, apriti cielo. Pazienza se la loro esistenza era già stata rivelata da Panorama e poi da tutta la stampa: Di Matteo finì ugualmente sotto procedimento disciplinare e ci rimase per un anno e mezzo, finché nel dicembre 2013 Ciani scoprì finalmente l’acqua calda: Di Matteo non poteva rivelare una notizia già rivelata dai giornali. Dunque chiese l’archiviazione. Oggi la sezione disciplinare del Csm deciderà se accoglierla o meno. Ma state tranquilli che, se mai l’accoglierà, subito dopo scoprirà che Di Matteo ha sbagliato cravatta, o è mal pettinato, o ha la barba lunga. Come disse Piercamillo Davigo quando toccò al pool Mani Pulite, “non ce l’hanno con noi per quello che diciamo, ma per quello che facciamo”.