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 2014  marzo 06 Giovedì calendario

ELOGIO DI UN MUSEO SCONCERTANTE


In un recente incontro berlinese ho avuto occasione di aggiornare le mie conoscenze architettoniche della capitale tedesca. Oltre a quelle ben note di Mies van Der Rohe, di Gropius, di Poelzig, e alle più recenti e ben note di Scharoun e di Renzo Piano, già molto discusse, vorrei spendere due parole soprattutto per l’importante museo ebraico di Daniel Libeskind.
Quest’opera infatti costituisce l’esempio insolito di un capolavoro architettonico da molti punti di vista sconcertante. Infatti lo stile adottato dall’autore è,in un certo senso, uno specchio della situazione anomala e spesso tragica del popolo ebraico e cerca da un lato di creare un omaggio alla grande civiltà di questo stesso popolo, dall’altro di commemorare l’enorme tragedia della Shoah e delle persecuzioni dell’epoca nazista.
Il Jüdisches Museum di Libeskind risale all’anno 2001 e il concorso è stato vinto dall’architetto polacco (1946) dopo un’accesa competizione; ma la ragione per cui questo importante edificio lascia perplessi è la sua indubbia apparenza insolita e spesso addirittura scostante. Non a caso la stessa pianta del museo è basata su una linea zigzagante che incrocia una linea retta, creando dei vuoti di forma trapezoidale che interrompono l’articolazione normale dello spazio. In questa maniera tutto l’insieme dell’area museale viene così ad essere improntato a una decisa asimmetria e a uno slivellamento, sia longitudinale che trasversale. Non solo, ma le stesse finestre vengono sostituite da feritoie irregolari che creano nell’interno una luce incostante con alternative tra la totale oscurità e una luminosità frammentaria.
Naturalmente in questo modo non è certo possibile vedere l’esterno al di là delle feritoie. Non solo, ma all’interno si ha una sensazione di incertezza e impossibilità di comunicazione con il mondo esterno. La scomodità e la disagevolezza della permanenza interna evidentemente corrispondono a quanto l’architetto aveva voluto simboleggiare per quanto riguarda, appunto, la situazione equivoca del periodo nazista mentre i lunghi corridoi che si intersecano simboleggiano le vie di liberazione dai campi di concentramento e dalle tragiche detenzioni.
È difficile decidere fino a che punto questo edificio, che indubbiamente è un solenne memorandum di un’epoca drammatica, possa effettivamente corrispondere a quella glorificazione dell’ebraismo che l’architetto perseguiva; ma credo tutto sommato che la spiacevolezza dell’insieme corrisponda a una condizione di insicurezza e di contrasto costante che può essere considerata come caratteristica del pensiero ebraico.
Naturalmente la presenza di costruzioni simboliche all’interno della stesso edificio del museo può anche lasciare perplessi. Il fatto che non ci sia un’entrata diretta e che molto spesso la mancanza di luce di certi ambienti voglia alludere al buio delle deportazioni al pari dell’uso simbolico della stella di Davide in una forma «distorta» (quale facsimile delle persecuzioni subite dal popolo ebraico) sono tutti atteggiamenti che concorrono a determinare l’atmosfera di un’aberrazione rituale. Un’atmosfera che, peraltro, può provocare nel visitatore non particolarmente erudito una sensazione decisamente sgradevole tanto da poter affermare che questo capolavoro architettonico (quale sicuramente il Jüdisches Museum di Berlino di Libeskind può essere considerato) finisce per essere più che una glorificazione, una sorta di malinconica e tragica odissea. Il che, tutto sommato, consente di lodarlo dal punto di vista architettonico e storico, ma non permette di accettarne a pieno lo stilema artistico.