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 2014  marzo 06 Giovedì calendario

CARACAS UN ANNO DOPO: CARRI ARMATI E BARRICATE


CARACAS — I carri armati della Rivoluzione e le barricate di spazzatura fumante. La sfilata civico-militare alla cubana, con camicie rosse e bandierine, e il fumo dei lacrimogeni nelle strade. Il giorno dedicato a Hugo Chávez, nel primo anniversario della sua scomparsa, è appena un’altra fotografia del Venezuela spaccato e in crisi. Il regime mostra i muscoli e minaccia, gli oppositori non cedono e restano nelle strade. Il leader Nicolás Maduro cade in un’altra delle sue tante contraddizioni: rompe la solennità religiosa dell’atto parlando a lungo degli «oppositori fascisti», ne elenca i presunti crimini («sabotano ponti, gallerie e autostrade») ma allo stesso tempo dice che nel Paese non sta succedendo assolutamente nulla, «sono solo minacce di piccoli gruppi». I quali però «andranno castigati severamente».
Tutti i canali tv del Paese trasmettono — devono farlo — «le celebrazioni del passaggio all’immortalità di Hugo Chávez». Il Comandante supremo, eterno, galattico. La sua è stata appena una dipartita fisica, Chávez è vivo. Sul lungo viale Los Proceres, dove in migliaia si misero in fila per la camera ardente, Maduro fa ora sfilare le forze armate, le brigate bolivariane, i pionieri e i medici cubani, i dipendenti pubblici e i militanti, in quella commistione totale tra Stato e rivoluzione inventata dal suo padre politico. Chiama tutti i leader amici del continente, che stanno chiudendo un occhio sulla violazione dei diritti umani in Venezuela: si presentano soltanto il boliviano Evo Morales e il cubano Raúl Castro, gli altri mandano rappresentanti. Tutti renderanno omaggio al sepolcro di Chávez, rimasto al Quartel de la Montaña, una caserma nel cuore della Caracas popolare e filoregime. Da lì, il leader scomparso tentò la prima ascesa al potere, nel golpe fallito del 1992.
Nei piani di Maduro, questo 5 marzo avrebbe dovuto segnare la fine dei suoi guai, dopo un mese di rivolta. Per sei giorni, stirando le vacanze di Carnevale, ha chiuso il Paese con un lunghissimo ponte. Tv e giornali hanno mostrato immagini di spiagge piene di gente, file di auto verso il mare, sfilate in maschera. Intanto, sempre sui media, il regime lanciava l’operazione «pace»: lunghe riunioni per discutere i problemi del Paese aperte a tutte le parti sociali, anche dissidenti. Ma gli oppositori, studenti in testa, non sono andati in vacanza e i loro leader non hanno risposto all’appello di dialogo, considerandolo fasullo. L’eredità del socialismo chavista non è in discussione, né lo sono le confuse misure economiche che Maduro ha ereditato. Ogni giorno ci sono manifestazioni, a Caracas e in altre città. Ma soprattutto non è cessata, anzi è andata crescendo, la principale forma di protesta. Qui le chiamano guarimbas , sono le barricate improvvisate, i posti di blocco montati dagli abitanti dei quartieri, le trincee sull’asfalto inventate togliendo le grate agli scoli dell’acqua piovana, per impedire il passaggio delle auto. Il risultato è la paralisi di interi quartieri, oppure di una città, come nel caso di San Cristobal nel Tachira, cuore della rivolta. Ad opporsi c’è la polizia nazionale bolivariana che al calar del sole passa all’attacco: lancia lacrimogeni, spara con proiettili di gomma, manganella, insegue i manifestanti fin dentro i palazzi per arrestarli. Non va tanto per il sottile, come testimoniano centinaia di foto e video diffuse sulla rete. Decine di giornalisti e fotografi sono stati aggrediti e hanno perso tutto il loro materiale. Soltanto ieri a Caracas, mentre Maduro celebrava l’eternità di Chávez e l’insignificanza dei sabotatori, ci sono state decine di arresti e altri feriti negli scontri.
Ogni giorno che passa la sensazione di stallo aumenta. Per disfarsi di centinaia di manifestazioni di ripudio, il regime dovrebbe impiegare una forza che causerebbe di sicuro una strage, ben oltre le 18 vittime finora calcolate. E’ costretto ad aspettare che i manifestanti si stanchino, o che avvenga nei quartieri una controrivolta alle difficoltà causate dai blocchi stradali. Allo stesso tempo deve sperare che la rivolta non si allarghi ai quartieri popolari, al cuore del consenso chavista, cosa che finora non è avvenuta. La violenza del discorso di Maduro lascia escludere per ora qualsiasi altra forma di apertura, come potrebbe essere un cambiamento di rotta del modello economico, che sta causando inflazione e mancanza di prodotti nei negozi.
Sul fronte internazionale Maduro ha dormito finora sonni tranquilli. Non lo preoccupano i timidi appelli di Onu e Ue, si fa forte del silenzio assenso di Paesi come Brasile e Argentina. Alla notizia che finalmente l’Oas, organizzazione degli Stati americani, terrà una riunione sul caso venezuelano, Maduro risponde «è meglio che resti a Washington, qui non entrerà mai più». «Nessuno può mettere il naso nei nostri affari». Poi lancia una minaccia seria, senza nominarlo, ad un «Paese servo che sta cospirando contro la patria venezuelana, non pentitevi poi quando reagiremo». Pare che si riferisca alla Colombia, alla quale imputerebbe la particolare animosità delle province su quel confine.
Rocco Cotroneo