Mattia Feltri, La Stampa 6/3/2014, 6 marzo 2014
SCENE DI ORDINARIO DEGRADO
«Scusi, non vengo qua da trentacinque anni», dice la signora. Giovanni, la nostra guida, si gratta la testa. «Provi in via dell’Abbondanza, lì ci sono moltissime scritte», dice.
«Era qualcosa come Lucia ama... ama qualcuno...», insiste la signora. La richiesta è piuttosto vaga, ma non è l’unica. Due ragazze domandano dell’Anfiteatro. «Di qua, sono due chilometri». Un uomo del Macellum. «Dopo l’arco a destra». E sì che Giovanni si è levato il badge dal collo «perché se no ce li ho addosso come mosche». Parla dei turisti che non lo sapevano di venire a Pompei a fare la caccia al tesoro. L’impresa di occultare il più stupefacente gioiello mondiale d’archeologia parte da lontano e non riesce soltanto per la testardaggine degli escursionisti. Gli stranieri arrivano spesso in gruppi organizzati, chi si muove da sé si è armato di navigatore satellitare, e meno male perché non c’è un’indicazione. Si proviene in autostrada da Roma, si oltrepassa Napoli, si resiste alla tentazione di seguire per Salerno, e si legge la parola “Pompei” soltanto se si arriva a Pompei. E siccome le uscite sono due, e mute, si sceglie la prima che non si sa mai. Finalmente spunta qualche cartello marrone fuori portata dei miopi, mal fissato e quasi ondeggiante al vento, e per cui inaffidabile. C’è scritto «zona archeologica», come per qualsiasi necropoli sparsa in Italia. I vigili urbani, volenterosi, collaborano. Si percorrono piccole strade fatiscenti a ottimistico doppio senso fra palazzine grigie e sbrecciate. A destinazione i parcheggi custoditi costano dai tre ai cinque euro l’ora, ed è soltanto adesso che si affaccia l’idea dell’affare: per andare al bagno serve una moneta da cinquanta centesimi.
Giovanni, la guida, è molto preso dal suo ruolo. Ragguaglia su ogni sfumatura del selciato o tonalità di rosso. Si indigna a sentir parlare di lava: lo sterminio fu provocato dai gas prodotti dal Vesuvio e dal terremoto e probabilmente da uno tsunami eccetera. Ci mette un po’ a capire quale interesse debba soddisfare. Allarga le braccia: non ci sono insegne e soprattutto pannelli coi dettagli sul tribunale, sulla villa dello strozzino, sul forno dentro cui nell’Ottocento trovarono le pagnotte carbonizzate, sulla locanda dove fino al 79 d.C. i pompeiani bevevano vino e giocavano a dadi: quel che non fanno i moderni lo hanno lasciato gli antichi, coi loro affreschi a raccontare la storia di quelle stanze, e in cui ci si imbatte per caso, in questa caccia al tesoro, svoltato un angolo e percorso un vicolo. La casa del Cave canem è indicata come visitabile dalla cartina distribuita all’entrata; invece l’ingresso nella domus è impedito da un cancellino con catena e lucchetto, e il mosaico del cane è lì sotto. Chiusa. Giovanni dice: no, è aperta, entriamo da dietro. Qualcuno sente e ci viene dietro. Chiede: «Perché davanti era chiuso?». Boh.
Un amico ci ha dato un elenco abbastanza recente delle domus, edifici o zone non visitabili. È di sei mesi fa. Cinquantuno per carenza di personale, ventisei per restauro. La cartina però non è aggiornata. Giovanni ora ci ha preso gusto. Andiamo alla casa della Colonna etrusca, «chiusa dal terremoto del 1980». Via delle nozze d’argento - così chiamata perché lì festeggiò le sue re Umberto I con la regina Margherita - «chiusa dal terremoto del 1980»: ci sono barriere e ponteggi arrugginiti scivolati giù dai muri. Casa dei Vetti, con l’affresco di Priapo che si pesa il fallo, «chiusa da oltre venti anni». Casa Fontana piccola, chiusa da tempo imprecisato: l’uscio è nascosto da un telo di plastica blu, dentro ci sono avanzi di impalcature sommersi da guano. Casa Fontana grande, «sono qui da quasi quarant’anni, non l’ho quasi mai vista aperta», dice Giovanni indicando una fontana magnifica, laggiù nel cortile. Fermiamo i custodi con cui aggiorniamo la contabilità casa dopo casa: «mai vista aperta», «è stata aperta sei mesi, tre anni fa, e poi richiusa». È una litania interrotta da esauste domande in inglese, tedesco o francese. Sono i turisti che cercano le mummie (guai a dire mummie, si dice calchi di corpi), il lupanare, la casa del fauno. Guardano la loro mappa rigirandola come per farci cascare giù la soluzione. Ascoltano l’audioguida corrugando la fronte. Tutta la città è percorsa da un nulla sacrale, a parte i cartelli coi nomi delle vie, e girarci da soli significa passare da pietra a pietra, in luoghi definitivamente senza vita e ricordo, finire davanti a un ritratto di cui è impossibile conoscere origine e significato.
Qui sono orgogliosi perché Pompei è visitabile sette giorni su sette. Nel 2012 sono entrati due milioni e 300 mila turisti per un incasso di 19 milioni e mezzo di euro (ma in Inghilterra i con i quattro megaliti di Stonehenge, con tutto il rispetto, di turisti ne fanno un milione l’anno). E sono orgogliosi perché da qualche mese in biglietteria si può pagare con la carta di credito. Però sanno di vivere dentro a un pozzo di petrolio da cui si tirano fuori poche gocce, e se le ciuccia Roma. Il feticismo inerte della cultura consente che anno dopo anno si sbriciolino gli stucchi in rosso pompeiano - altro che i muri, dicono i custodi - perché si è perduta l’arte del fissaggio delle maestranze locali, e i privati fanno guasti. Le imprese che lavorano nelle rovine gira e rigira lasciano tutto in sospeso perché finiscono indagate. Si lavora al restauro della casa di Sirico: costi, 572 mila e 85 euro. Impossibile guardare dentro, i restauratori hanno l’orgoglio del loro sapere e non gli va di fare gli animali in esposizione. È un feticismo della cultura che impedisce le illustrazioni, la vista degli archeologi, figuriamoci un banchetto di bibite o un bagno chimico. In via del Foro, fra svenimenti per la profanazione, hanno aperto un bar Autogrill effettivamente molto variopinto. C’è un bagno per uomini e uno per donne, guasti entrambi. L’unico altro bagno sui 66 ettari è all’entrata di Porta Marina e la pipì diventa un incubo collettivo. Si deve dare l’informazione anche a questi giapponesi che quasi saltellano disperati. Comprendono che c’è da fare molta strada. Scompaiono un attimo dietro a un muro, ricompaiono liberati.