Antonio Crispina, Corriere.it 5/3/2013, 5 marzo 2013
Eppure una spiegazione ci deve essere. Quei lividi su braccia, gambe e schiena, quei tagli sulla faccia, quel piede diventato color melanzana, l’occhio sanguinante, le cicatrici sulle guance
Eppure una spiegazione ci deve essere. Quei lividi su braccia, gambe e schiena, quei tagli sulla faccia, quel piede diventato color melanzana, l’occhio sanguinante, le cicatrici sulle guance. Sono tutte cose reali, fotografate, periziate. Non è il solito racconto generico di un pestaggio. Perché, si sa, i pestaggi in carcere non esistono, sono un’invenzione di detenuti scaltri che farebbero di tutto pur di uscire dal «gabbio». Anche per l’Amministrazione penitenziaria è tutto trasparente, sotto controllo, una cosa inimmaginabile negli istituti moderni. Poi ci sarebbero da spiegare fratture e microfratture che in foto non si vedono ma agli occhi dei medici sì. LA STORIA DI GIUSEPPE - Giuseppe Rotundo era in carcere, a Lucera, in provincia di Foggia. Tre agenti della polizia penitenziaria raccontano di essere stati aggrediti da lui, così, senza un motivo. Quei segni su tutto il corpo del detenuto sarebbero il frutto del tentativo di sedarlo. Per «calmarlo» arriveranno a cambiargli i connotati. Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al Pubblico Ministero che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti (ora il processo è in fase dibattimentale). L’altra, una psicologa clinica, nel vederlo scoppia a piangere. Quel Rotundo lo aveva incontrato e ci aveva parlato a lungo il giorno prima. Il 13 gennaio 2011, seduta dietro la scrivania, gli portano un detenuto malconcio e sanguinante. Faceva fatica a camminare. Incuriosita, chiede: «Lei, allora, chi è?». «Come chi sono, dottoressa - risponde il detenuto -. Sono quello di ieri... Rotundo». Il viso era così tumefatto da avergli alterato i tratti somatici. La dottoressa resta sconvolta, smarrita. Per qualche attimo impietrita, poi scoppia a piangere. «Non ho mai visto così le condizioni di un detenuto», confiderà al magistrato. Una testimonianza più unica che rara. LE LESIONI IN CARCERE - «È difficile che le lesioni subite in carcere vengano certificate, tantomeno è probabile che un detenuto violentato venga portato in ospedale» dice Simona Filippi, avvocato dell’associazione Antigone che opera per la tutela dei diritti nel sistema penale. «Il caso Rotundo - ci spiega l’avvocato - rappresenta quasi un unicum perché rientra in quei rari casi in cui al magistrato arriva la notizia del pestaggio e invia subito un perito per farlo fotografare». «Subito» significa dieci giorni dopo. Com’era quel volto? Traviato dagli scarponi, da calci, pugni, gomitate in ogni dove. Non c’è un centimetro quadrato di quel corpo senza lividi o chiazze rossastre. Nel redigere il capo di imputazione, il sostituto procuratore impiegherà dieci righe solo per elencare tutte le lesioni presenti al momento della perizia. Sempre per rispondere all’aggressione del detenuto, in quei frangenti, deve essere successo qualcos’altro. Perché a un certo punto Rotundo perde i sensi e cade a terra. Si risveglierà con 40 giorni di prognosi. Giuseppe Rotundo lo racconta per filo e per segno quello che sarebbe avvenuto nelle celle di isolamento di Lucera: dal momento in cui ammette di aver insultato un agente a quando si risveglierà nudo, a terra, pieno di ematomi. Volutamente non riportiamo nemmeno una parola di quello che dice, perché tanto non verrebbe creduto. È un ex detenuto, un criminale. E poi mentre dice di aver preso «mazzate» da sette agenti (cosa improbabile vista la carenza del personale di polizia penitenziaria; cosa ci facevano sette agenti in una cella?) ha sferrato un pugno a un poliziotto. E quello è tutto documentato, refertato, testimoniato e certificato. Un pugno che è costato all’uomo in divisa un occhio nero, escoriazioni varie, trenta giorni di prognosi e conseguente inabilità al servizio. Il fatto sconvolgerà la psiche del poliziotto. Documenterà una sopravvenuta depressione, in seguito all’aggressione subita senza motivo, che gli ha consentito a malapena di festeggiare lo scudetto del Milan su facebook vestito da jolly rossonero. IL SUICIDIO - Nello stesso carcere dove era recluso Rotundo, proprio qualche mese fa è morto un detenuto. Si chiamava Alberico Di Noia. Era dentro per piccoli reati. Gli restavano da scontare pochi giorni di prigione. Lo troveranno impiccato in cella. La ricostruzione dell’Amministrazione penitenziaria non convince nemmeno il sindaco che per protesta proclama il lutto cittadino. Al funerale partecipa l’intera cittadina di Zapponeta, il comune d’origine di Di Noia. «Hanno voluto chiudere in fretta e furia il caso, non capisco perché - commenta con l’amaro in bocca il sindaco Giovanni Riontino -. Così come non capisco perché abbiano impedito alla famiglia di vedere il corpo per 24-48 ore. E ancora: non capisco perché una persona che deve uscire a giorni si impicca in cella? Conoscevo quel ragazzo, eravamo coetanei, non lo avrebbe mai fatto. Come sindaco ero stato informato del suo affidamento ai servizi sociali e so che era contento, voglioso di iniziare. Vuole sapere davvero cosa penso? Da uomo dello Stato credo che lo Stato in questo caso abbia sbagliato». LE DONNE VIOLENTATE - Colpevoli, criminali, assassini, rapinatori, ladri, spacciatori. Persone alle quali lo Stato aveva inflitto una pena da scontare in carcere. Moriranno prima. Eppure basterebbe non commettere reati per evitare quelli che il sindaco di Zapponeta chiama «sbagli dello Stato». E invece no. Ci sono voluti sette anni per scoprire cosa faceva il comandante dei carabinieri Massimo Gatto nelle celle di sicurezza di Parabiago, in provincia di Milano. Sette anni durante i quali mai nessuno ha visto niente. O magari sentito le grida d’aiuto di undici donne rinchiuse e violentate in cella o nei bagni della caserma. Alcune erano state fermate in strada per controlli o si erano recate dai carabinieri per sporgere una denuncia. La corte d’Appello ha confermato le violenze sessuali a partire dal 2004 ma altre denunce risalirebbero al 1998, ormai prescritte. Per loro non ci sarà mai giustizia. Ma forse, tutto è solo un grosso fraintendimento. Dai 20 anni di condanna in primo grado si è passati ai 16 anni del secondo. Ora si aspetta la Cassazione. Perché... «quelle donne hanno frainteso i miei gesti galanti», dirà in aula il carabiniere. I DUE RAGAZZI - A Napoli si cerca di capire quali siano le colpe di due ragazzi. Erano seduti su un motorino quando gli si affiancano i ‘falchi’ della Polizia. La Procura di Napoli verificherà violenze gratuite da parte dei poliziotti. Saranno sospesi dal servizio e uno di loro finirà agli arresti domiciliari. Ma quello che succede in strada e in Questura ha davvero dell’incredibile. «Sono stati costretti con la forza ad andare negli uffici della Polizia senza un motivo e sono stati trattenuti senza che gli sia stato contestato alcun reato» dice l’avvocato difensore Riccardo Polidoro. I ragazzi non hanno voglia di parlare. Sono silenti. Non per quello strano invito rivoltogli al momento del rilascio: «Ora che uscite, mi raccomando, fate gli uomini...» ma perché hanno delle attività commerciali in città e temono ripercussioni. Nonostante tutto si sono costituiti parte civile nel processo. Dovranno ripercorrere in un’aula di tribunale quello che è successo, quello che la Procura ha riassunto così: « …venivano colpiti ripetutamente con schiaffi, pugni alla testa… buttandoli a terra a pancia sotto, sferrandogli calci allo stomaco, colpendoli violentemente all’occhio destro con la paletta segnaletica… ed ancora, sferrando un pugno all’occhio destro… poi nelle costole, afferrandogli i capelli con entrambe le mani e dandogli ginocchiate allo stomaco, al torace e nei fianchi». Ovviamente nella relazione di servizio che scrivono i poliziotti non c’è niente di questo. Per loro tutto si è svolto secondo le regole. «Sarà un processo lungo e difficile - commenta l’avvocato Polidoro -. Eppure basterebbe che la parte sana delle forze dell’ordine, che sicuramente è maggioranza, li isolasse. O, quanto meno, non gli manifestassero solidarietà».