Paola Scaccabarozzi, Oggi 5/3/2014, 5 marzo 2014
ELETTROSHOCK! COSÌ SONO RINATO DALLA DEPRESSIONE
Milano, marzo
Sì, ho una storia speciale da raccontare. Una storia che dedico a chi ha sofferto e soffre come me, con la certezza di offrire una speranza. Viene definita depressione, ma comunque vogliate etichettarla, è un immenso contenitore di sofferenze». Parole di Ignazio Cucci, nel libro Elettroshock, Sono ancora vivo. E la chiamano depressione (Minerva edizioni), scritto a quattro mani con suo padre Italo, noto giornalista sportivo e direttore di importanti testate. Il loro è il racconto di una lunga battaglia contro la depressione, di un rapporto molto intenso tra padre e figlio e, insieme, un romanzo catartico perché «mettere in piazza i propri dolori non è affatto semplice, ma è liberatorio e utile per se stessi e gli altri», dice Italo Cucci.
La famiglia Cucci è stata più volte straziata dal dolore. A cominciare da un lontano 1979, anno della morte della prima figlia, Francesca, portata via a 13 anni dalla leucemia. Poi, la storia di Ignazio e la sua depressione a poco più di 20 anni, una forma grave, di quelle che ti fanno sentire le voci che dal cuore vanno alla mente e viceversa. Voci che non ti lasciano tregua e possono indurti a gesti inconsulti. Intanto gli amici se ne vanno, ti abbandonano e la fidanzata ti molla. La solitudine diventa un peso tremendo. NON CHIAMATELO “ESAURIMENTO”
«Inizia così», commenta Italo, «un lungo peregrinare tra infiniti colloqui, ospedali, psicologi, medici e pillole per curare una malattia in grado di rubarti la vita, ancora troppo sottovalutata e spesso banalmente definita “esaurimento nervoso”, proprio come 50 anni fa».
Quindi la svolta, l’incontro con un famoso psichiatra, il professor Giovanni Battista Cassano dell’Università di Pisa e la decisione, sofferta, di sottoporsi all’elettroshock. «La terapia elettroconvulsionante», scrive Ignazio nel libro, «che già a chiamarla così mi faceva paura... Su Google avevo letto di tutto, contro quella cura che, dicevano, mi avrebbe cancellato la memoria, fatto tornare un bimbo vuoto, liberato da voci e incubi, ma senza futuro». Tuttavia la cura funziona. Ignazio ora ha 33 anni, sta meglio e conduce un’esistenza decisamente più serena. Vive a Pantelleria, fa il bibliotecario, gioca a calcio con nuovi amici e coltiva una piccola porzione di terra. Scopriamo che «dopo l’intervista», sorride il padre Italo, «andremo insieme a vedere una mostra d’arte nella mia città natale, Bologna. Un momento tutto per noi, da gustare assieme, del tutto impossibile un tempo».
Ma l’elettroshock esiste ancora? «Stiamo parlando di una terapia inventata negli anni Trenta da un neuropsichiatra italiano, Ugo Cedetti», spiega il dottor Leo Nahon, direttore della Struttura Complessa di Psichiatria 3 all’ospedale Niguarda-Ca’ Granda di Milano. «Cerletti osservò come una scossa elettrica nella regione bitemporale (nelle due zone del cranio lateralmente alla fronte) inducesse una crisi epilettica controllata che aveva effetti terapeutici in certi pazienti affetti da psicosi, disturbi psichiatrici molto gravi. La metodica si affermò in tutto il mondo, malgrado il suo funzionamento non fosse mai stato del tutto chiarito e tuttora non lo sia (ciò che del resto è ancora vero per molte altre terapie mediche in uso). Venne spesso, però, usata impropriamente e arbitrariamente».
CHI DISSE DI NO ALLA “SCOSSA”
Continua Nahon: «In origine, per esempio, si praticava senza anestesia e ciò rendeva brutale l’applicazione. L’abuso e la mancanza di cautele portarono a una vera degenerazione di questa pratica che, peraltro, si inseriva in una organizzazione della psichiatria basata su manicomi chiusi e degradati. Si creò allora un movimento di critica cui lo stesso inventore Cerletti partecipò nell’ultima parte della sua vita (negli anni Cinquanta-Sessanta). Il famoso psichiatra Franco Basaglia disse che usare l’elettroshock per curare un malato psicotico era come tentare di aggiustare una radio dandoci un pugno sopra».
Dopo una salutare campagna contro gli abusi, si giunse a una vera e propria demonizzazione, «ma l’elettroshock è ancora usato in tutto il mondo», spiega Nahon, «per casi assai selezionati (comunque solo tra Stati Uniti ed Europa le somministrazioni annue ammontano a poche decine di migliaia) e con una metodologia che lo rende praticamente indolore». In quali situazioni viene ancora impiegato? «Soprattutto nel caso della “depressione maggiore melanconica resistente”, cioè una forma di depressione grave che non risponde ad almeno tre trattamenti con farmaci diversi. Le depressioni resistenti costituiscono il 10-20 per cento delle depressioni e per circa il 2 per cento di queste si fa ricorso all’elettroshock. Soprattutto in pazienti anziani e nelle persone in cui la cura con i farmaci non sia applicabile per gravi effetti collaterali».
Risultati? «Sono spesso soddisfacenti, anche se con la ripetizione i cicli di trattamento perdono efficacia». Gli effetti collaterali che si manifestano nel 50-60 per cento dei casi sono soprattutto amnesie. Per finire, in Italia si fa l’elettroshock? «Viene applicato in alcune cliniche private convenzionate e in pochi ospedali pubblici, per l’alone polemico ancora presente sul tema, sia per il timore di critiche o “guerre” ideologiche. Tuttavia ogni servizio psichiatrico, quando l’équipe valuti che questo trattamento sia necessario, è in grado di trovare il centro di riferimento idoneo».