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 2014  marzo 05 Mercoledì calendario

SALVATE IL SOLDATO ASSANGE, DA SE STESSO


Julian Assange ha molti nemici. Ma il più pericoloso di tutti è se stesso. A dirlo, dopo più di due anni di silenzio, è Andrew O’Hagan: lo scrittore scozzese chiamato dal fondatore di WikiLeaks a scrivere la sua autobiografia sotto anonimato e che ora – in una lunga memoria pubblicata dalla London Review of Books – ha deciso di raccontare per filo e per segno i dettagli della sua tempestosa collaborazione con l’uomo che ha cercato di rivelare i segreti del potere costituito ma ha dimostrato di avere – secondo O’Hagan – una paura disperata di raccontare la sua vita vera.
O’Hagan ha passato le notti a parlare con Assange, ha pranzato e cenato con lui, ha vissuto nella case dove vivevano gli uomini delta sua organizzazione, ha simpatizzato con la causa della trasparenza da essi promossa. Ma la stesura della storia della sua vita Assange non l’ha mai autorizzata, nonostante avesse firmato un contratto di 600 mila sterline con la casa editrice Canongate. Un patto disatteso accampando mille scuse – impegni dell’ultima ora che gli impedivano la revisione del testo, preoccupazioni per i processi aperti contro di lui, perplessità sul genere della narrazione – ma secondo O’Hagan «sabotato» perché in fin dei conti «la verità» su di sé «lo ferisce e non è sua amica»,
Il libro è uscito lo stesso nel settembre del 2011 con il titolo Julian Assange. The Unautohorised autobiography con la casa editrice Canongate, in cui raccontava al lettore la marcia indietro del guru di Wikileaks. L’operazione però si è rivelata un flop commerciale perché il volume ha venduto nella prima settimana solo settecento copie. Moltissimo meno delle aspettative. Ma il ghostwriter del volume – O’Hagan, appunto – finora non aveva detto nulla della sua storia. E per questo il lungo racconto consegnando alla rivista londinese (più di 25 mila parole) è un materiale prezioso per la conoscenza della personalità di Julian Assange. Più sincero persino del libro mandato alle stampe.
Il ritratto che ne emerge è spietato. Julian viene descritto come una persona «un po’ matta, triste e cattiva». Pieno di sé, racconta di aver ricevuto un sms in cui Fidel Castro gli scrive che Wikileaks è l’unico sito internet che gradisce. È ossessionato dalla sua attività e soprattutto da suoi nemici. Che non sono però i giornali della destra anglosassone – come si potrebbe sospettare –, che lo descrivevano come un criminale: ma sono piuttosto le testate che lo hanno sostenuto e aiutato a diffondere i suoi leaks, come il New York Times e il Guardian, colpevoli di «codardia» perché alle sue rivelazioni avevano deciso di applicare le regole del giornalismo professionale (come per esempio la tutela delle fonti, che, secondo Assange, invece meritavano di essere abbandonate al loro destino).
O’Hagan è sorpreso dalla sicumera di Assange, un dissidente che non «si fa domande», mentre invece tutti gli attivisti che lo scrittore aveva conosciuto prima d’allora avevano in comune una caratteristica: «Erano sempre pieni di interrogativi». Il fondatore di Wikileaks viene raccontato come una persona poco professionale, pigra, auto-centrata, che mangia a tavola con le mani e ama avere l’attenzione tutta concentrata su di sé, alimentando il culto della sua personalità. Quando gli chiedono se per una volta può fare i piatti, nella casa in campagna dove vivono in comunità, risponde: «Devo sostenere una sollevazione in Cina» e si fionda davanti al suo computer. Lungi dall’allontanare O’Hagan, la personalità di Assange continua ad affascinarlo: «Ciò che in Julian difetta di efficienza e professionalità è controbilanciato dal coraggio. Ciò che gli manca in termini di attenzione per gli altri è compensato dal suo impatto». Tuttavia lo scrittore non può fare a meno di riconoscere le paranoie che lo animano. Ricorda che una volta in macchina Assange si sente inseguito da una Mondeo bianca e gli intima di sterzare e fuggire. Poco più tardi scopre che l’auto sospetta era in realtà un taxi con a bordo un bambino. «Tu non capisci», gli dice Assange, quando O’Hagan glielo fa notare.
Sul finire del suo articolo, O’Hagan spiega perché è rimasto con la bocca tappata sinora nonostante tutti sapessero che era l’autore dell’autobiografia. Lo scrittore spiega che per quelli come lui «cresciuti negli anni ’80 e ’90, in particolare nel Regno Unito di Thatcher e Blair», cioè coloro che avevano visto «la deregulation della City e la guerra in Iraq», la «rivelazione dei segreti» del potere e le sue «operazioni nascoste» era considerata una «manna dal cielo». Per questo, scrive, «quando Wikileaks ha iniziato la sua attività a me e a molti altri è sembrato che essa potesse essere il più grande contributo alla democrazia dalla Guerra fredda in poi». Gli è servito molto tempo per capire che quelle idee – giuste – stavano viaggiando però sulla gambe della persona sbagliata: un uomo che considera «la libertà di parola permessa solo se essa aderisce al suo messaggio». E così quando ha capito che aveva commesso un errore, e che non era possibile salvare Assange da se stesso, ha deciso di vuotare il sacco.