Antonio Pascale, Il Messaggero 5/3/2014, 5 marzo 2014
LA CASSAFORTE DELLA APPLE A UN ITALIANO
Un giovane manager romano, Luca Maestri, cinquant’anni, sta per diventare chief financial officer del colosso Apple. Descrizione lunga ma in sintesi e nella sostanza Maestri curerà le finanze (una liquidità-monstre pari a 160 miliardi di dollari) della Apple e questa sarà, si immagina, una sfida particolarmente impegnativa, visto che Maestri sostituirà Peter Oppenheimer.
Ovvero l’uomo che ha portato i ricavi dell’azienda di Cupertino da 8 miliardi di dollari a 171 miliardi di dollari. Ora quindi toccherà a Maestri mantenere e ampliare quei risultati,e soprattutto dovrà gestire una liquidità enorme, circa 160 miliardi di dollari. L’esperienza, d’altronde, non gli manca, prima della Apple, ha lavorato in Polonia, Irlanda, Svizzera, Singapore, Tailandia, Brasile, Germania e Stati Uniti, in Xerox, Nokia Siemens e General Motors.
Insomma, dopo Mario Draghi, Maestri aspira a diventare uno degli italiani più famosi e potenti al mondo. A prescindere dai meritati complimenti, questa storia può essere utile per parlare del mercato. Ancora ci sfuggono le novità, forse siamo abituati, vuoi per le note ragioni evolutive che ci spingono a considerarci parte di piccoli gruppi, vuoi per pigrizia italica, quel senso di locale e provincialismo che ci portiamo dietro, per questo o per altro, ma non ci siamo resi ancora conto che siamo sette miliardi: dunque è impossibile ragionare solo su piccola scala. Ogni prodotto nasce da una collaborazione internazionale.
Trent’anni fa, giovane liceale in gita a Versailles, rimasi sorpreso nell’apprendere che ogni giorno 436 persone lavoravano per il re Sole. Mi venne facile l’associazione: il re è ricco perché tante persone sono povere. Ma oggi, per esempio, quante persone hanno lavorato per realizzare il mio cellulare? Sappiamo che questo prodotto nasce dalla plastica (un derivato del petrolio) dalla tecnologia del chip e dal design. Ebbene, sarebbe interessante contare i geologi che hanno individuato la vena petrolifera, gli ingegneri che hanno montano la piattaforma ecc. Per non parlare delle tante ditte informatiche che, sembra impossibile, hanno partecipato alla realizzazione di un singolo chip, un centimetro quadrato di silicio su cui è stampato il circuito. E quante persone hanno disegnato il cellulare? Saranno milioni, io non ne conosco nessuno e nessuno di questi, preso singolarmente, è in grado di costruire il cellulare per intero, ma ognuno ne fa un pezzo.
Insomma, per dirla alla Matt Ridley: le idee fanno sesso. Cioè i singoli oggetti, anche quelli banali, non vengono prodotti secondo una modalità autarchica, ma sempre più spesso sono il frutto di una catena di produzione. Forse, appunto, non ce ne rendiamo conto, non sono solo i manager a essere globali, ma lo è anche la Nutella. La Ferrero produce le sue 250 tonnellate di cioccolata in nove fabbriche, quattro in Europa, due in Sud America, una in Australia e vende il barattolo in 75 paesi. Solo il latte è acquistato localmente (dove sta la fabbrica), non di certo le nocciole (dalla Turchia) e nemmeno il cacao (Nigeria) e l’olio di Palma (Malesia) e lo zucchero (Brasile) e infine la vaniglia (Cina). Il mondo è strutturato secondo il modello Nutella, cioè sulla base di catene di valore. Il vero problema semmai è che l’indice di partecipazione italiana alla catena è basso, il 45%, tra i più bassi dei paesi Ocse. Se da una parte siamo contenti che i talenti italiani viaggiano oltre oceano, c’è da rammaricarsi che la maggior parte del valore viene creata nella parte alta della catena (innovazione, ricerca e design) e noi in questo settore siamo davvero indietro e in affanno.
Speriamo che i nostri politici e gli opinion maker, i manager del futuro - tutti noi che mangiamo Nutella - saranno in grado di volare metaforicamente oltreoceano e di affrontare le sfide globali, che lo sappiamo portano benefici e problemi nuovi, ma tant’è, è necessario confrontarsi con un mondo complesso.