Claudio Antonelli, Libero 5/3/2014, 5 marzo 2014
CHI PAGA IL CONTO COSA SUCCEDE QUANDO VENDIAMO ALLO STRANIERO
La bilancia degli investimenti e delle acquisizioni parla chiaro. In poco più di sei anni gli stranieri hanno fatto shopping di aziende italiane per 101 miliardi dichiarati e almeno altri 15 contando a spanne le aziende più piccole i cui valori non sono dichiarati. Dall’altro lato le imprese italiane hanno investito all’estero solo per 65 miliardi. Nel primo caso le prede sono 830. Nel secondo, poco meno di 340. A peggiorare la situazione il fatto che dopo il 2010 è andata diminuendo la capacità (e la volontà) delle italiane di investire in Italia. Nel 2011, secondo dati Allen & Overy, le fusioni e le acquisizioni Italia su Italia sono calate del 73% rispetto all’anno precedente. I motivi dell’impoverimento e dell’esposizione all’investitore estero sono tanti.
Nessuna difesa del patrimonio industriale da parte della politica governativa, che al contrario ha saputo solo riversare sugli imprenditori i problemi legati al rifinanziamento del debito pubblico. La pressione fiscale aumentata di anno in anno sotto i colpi dell’euroausterità, assieme ai lacci burocratici. Le infrastrutture, soprattutto digitali, sono ferme da decenni. Politiche di sussidi statalisti che hanno drogato il mercato locale aiutando chi non aveva meriti e sottraendo risorse a chi aveva potenzialità. Incapacità di creare reti d’impresa e quindi barriere all’ingresso delle Alpi. In questo panorama da sabbie mobili, gran parte del made in Italy ha mantenuto il genio, il design, ma non ha saputo raggiungere le dimensioni necessarie per stare al passo con la globalizzazione. Un tempo bastava esportare, oggi bisogna crescere sui nuovi mercati; non basta avere connessioni commerciali. Oggi o si mangia o si viene mangiati. E, si sa, le aziende italiane sono mediamente troppo piccole per passarsi le altre. A volte per cause esterne. A volte per mancanza di visione degli imprenditori stessi che hanno drenato liquidità su altre iniziative o verso la propria ricchezza lasciando il bilancio dell’azienda esposto alle banche. Che poi hanno chiuso il credito.
In tutto ciò c’è una buona notizia. È interessante notare che il denaro degli stranieri solo in un caso su dieci ha seguito una logica puramente finanziaria (circa 80 aziende su 830), negli altri casi lo spirito è industriale. Si conquista il marchio made in Italy per portarsi a casa un know how da rivendere. Se il nuovo gruppo cresce, i dividendi varcheranno i confini italiani ma l’indotto si ingrasserà. O almeno resterà vivo. «Bisogna essere obiettivi ed analizzare i successi dei marchi italiani guidati da gruppi stranieri. Alcuni noti brand del made in Italy sarebbero probabilmente spariti se non fossero stati acquisiti da gruppi stranieri », dichiara a Libero Andrea Guerzoni, Transaction Advisory Services Leader di Ernest &Young. Al contrario, aggiunge, se «consideriamo a esempio alcuni marchi italiani della moda che hanno subìto un evidente declino pur essendo rimasti in mano a gruppi o famiglie italiane, emerge una nota positiva. Ovvero il fatto che in un complesso contesto economico e finanziario, seppur in miglioramento, continuiamo a registrare un elevato interesse verso i marchi del made in Italy, in particolare per quelli che hanno alla base una forte qualità del prodotto e un marchio riconosciuto sui mercati del lusso globale». I numeri dimostrano che l’investimento estero ha dato i suoi ritorni, anche al di fuori della moda e del lusso. Coin è stata rilanciata con lo stesso management. Cariparma e Bnl (acquisite dai francesi di Crédit Agricole e Bnp Paribas) hanno visto salire il margine d’intermediazione e l’occupazione. Ducati, passata ai tedeschi di Volkswagen, ha chiuso un bilancio record. Molti, invece, sostengono che quando la testa finisce all’estero prima o poi l’azienda si svuota. Secondo uno studio Coldiretti/Eurispes, a seguito dei passaggi di proprietà un terzo della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati sarebbe derivata da materie prime agricole straniere, trasformate e vendute col marchio made in Italy. Sappiamo, invece, che più del40% delle acquisizioni ha toccato il mondo retail, lusso e moda.
I casi finiti sotto la lente dei mass media dimostrano che le aziende passate di mano non sono fuggite ma hanno investito. Sulla base di uno studio Kering e sul rapporto annuale di Mediobanca è emerso che l’occupazione delle principali 14 società passate di mano in un decennio è passata da circa 44mila a oltre 47mila. Più o menoil7% in più.Tra queste ci sono Bottega Veneta che ha decuplicato gli assunti e Bulgari comprata da Lvmh per circa 4 miliardi che nel primo anno di nuova gestione ha visto crescere le fila degli effettivi del 10%. Gucci spicca tra tutte: acquisita dai francesi di Ppr, ha quasi triplicato il fatturato. Ha salvato dal fallimento le ceramiche Richard Ginori e reintegrato 230 dipendenti. Mentre sul territorio, a partire dal 2011, ha stimolato la costituzione di 8 reti di imprese. Col risultato di far recuperare marginalità. Assieme ad altri brand del lusso, ha contribuito alla firma di un accordo con CrFirenze-Banca Intesa per migliorare l’accesso al credito della filiera diretta: 700 ditte. Il costo dell’anticipo fattura è sceso mediamente dal 9 al 4%. Anche Nuovo Pignone, cavallo di battaglia di Matteo Renzi, ha visto passare il numero dei dipendenti da 4mila a 6mila dopo l’acquisizione di General Electric. Alcoa è invece tutta una storia. Più simile a quell’Italia fatta di sussidi.Una storia amara, ma, come si dice, ci sono le eccezioni che confermano le regole.