Silvia Ronchey, La Stampa 5/3/2014, 5 marzo 2014
Canfora come Platone? Le premesse di un transfert si coglievano già nel precedente libro su La guerra civile ateniese, contributo «tombale» sulla democrazia antica (e moderna)
Canfora come Platone? Le premesse di un transfert si coglievano già nel precedente libro su La guerra civile ateniese, contributo «tombale» sulla democrazia antica (e moderna). Nell’esperimento rivoluzionario «filospartano» dei cosiddetti Trenta Tiranni che aveva illuso il giovane Platone - quella rivoluzione trasversale alla polarità Atene-Sparta, in cui la lotta si faceva verticale, tra classi o ceti, anziché orizzontale, tra regimi - già si leggeva un’analogia con l’esperimento rivoluzionario novecentesco che ha affascinato Canfora sin da giovane. Le parole della VII lettera platonica, dove il filosofo ormai anziano e disilluso autodenunciava la sua iniziale adesione al progetto «ascetico-autoritario» di Crizia, poi sfociato nell’orrore e nel sangue oltre che nella condanna a morte del suo maestro Socrate, vibravano già di una risonanza autobiografica. In questo secondo e ancora più denso libro (La crisi dell’utopia. Platone contro Aristofane, Laterza, pp. 437, € 18) dalle forme politiche si passa alle idee: all’ideologia, all’utopia. Ma - domandiamo all’autore - alla parola «utopia» non potremmo aggiungere l’aggettivo «comunista»? Non è questo libro, tra le molte cose, anzitutto una riflessione sul comunismo? Declinata lungo l’orizzonte dei secoli e dei millenni, dal V secolo di Crizia al XX di Pol Pot, passando per Campanella, Swift, Saint-Simon, Fourier e molti altri, ma soprattutto per Marx e Engels? Con occhio sempre più da filosofo della storia che da storico dell’antichità? «La crisi di cui parlo è certamente quella dell’utopia comunista, ma intesa con un’ampiezza che si è persa. Dobbiamo restituire alla parola comunismo la vastità di contenuto già ben presente ai due giovani intellettuali che scrissero il Manifesto. Nella loro testa, prima che tutto accadesse, il comunismo non riguardava solo i mezzi di produzione, la sfera economico-sociale, ma i rapporti interpersonali, il destino della famiglia. Abbiamo assistito al compiersi dell’annosa parabola del passaggio del comunismo dall’utopia alla scienza. La seconda tappa è tornare dall’idea perdente del socialismo scientifico all’utopia». Proprio sui rapporti interpersonali e sul destino della famiglia è incentrata la satira di Aristofane nelleDonne in assemblea, che lei dimostra, con prove testuali inoppugnabili, in diretta polemica con il V libro dellaRepubblicadi Platone, in particolare con la «scandalosa e unilaterale rivoluzione sessuale presentata dal Socrate platonico come corollario della comunanza di tutto tra tutti»; ma soprattutto con l’idea di parità in pubblico tra uomo e donna - sul piano dell’intelligenza, delle capacità operative e della pari responsabilità nella gestione della città. «Nei secoli e nei millenni la vera pietra dello scandalo dell’utopia platonica non è stato l’egualitarismo in quanto tale - presente sia pure in altre forme nelle origini cristiane e in quanto possiamo ricostruire dallo scarno e interpolato testo evangelico sulla predicazione dell’eroe eponimo del cristianesimo - ma proprio la concezione del rapporto uomo-donna. La morbosa petulanza dei Padri della Chiesa è riuscita a inseguirla all’interno di opere mastodontiche come la Repubblica o le Leggi e Platone è stato principalmente condannato proprio per l’“immoralità” delle idee sulla condizione femminile e sull’ethos sessuale». Nei passi dei Padri della Chiesa del IV e V secolo, che lei cita nel suo libro, dalla condanna della parità della donna discendono tre anatemi: amore libero, aborto, omosessualità. «Tre bestie nere su cui la posizione della Chiesa cristiana nei secoli non è mutata di un centimetro. Il fatto è che le utopie a base religiosa durano millenni senza mutare, non essendo mai suscettibili a controprova. La frastornante elementarità concettuale del linguaggio di coloro che guidano le Chiese si basa su un libro solo, mentre noialtri ne abbiamo un’infinità, e in contrasto tra loro. Per questo le utopie laiche, che si presentino o no come scientifiche, si bruciano presto: le loro proposte economiche e sociali si esauriscono nel tempo alla prova dei fatti; il loro linguaggio concettuale è vulnerabile allo stesso spirito critico che sta a loro fondamento». La polemica di Aristofane prende di mira, in Platone, l’intellettuale utopista che dopo avere partecipato al regime utopico-sanguinario dei Trenta ha continuato a ritenere il suo tragico naufragio solo un incidente di percorso. Il suo slancio di intellettuale che si mantiene fedele al comunismo utopistico dopo il fallimento del comunismo reale su che cosa si concentra oggi? «Oggi mi trovo a pensare che inaspettatamente, in contrasto con tutte le previsioni incluse quelle di Marx stesso, la contrapposizione è di nuovo tra liberi e schiavi. La geografia delle classi sociali si è trasformata sotto i nostri occhi, nella dialettica tra mondo sviluppato e Terzo mondo o anche nelle forme di quella ”schiavitù concordata” che si attua qui in Occidente, dove il contrasto non è più tra capitale e lavoro salariato, ma quest’ultimo compie la scelta atroce, volta alla salvazione individuale, di arretrare rispetto alle precedenti condizioni. Penso al lavoro sottopagato in modo umiliante, ad esempio nel Sud d’Italia o in Portogallo, alle condizioni schiavili di vita che scorgiamo nelle grandi città, vicino alle stazioni ferroviarie o nei quartieri ghetto. È la realtà lancinante del XXI secolo, un processo di ritorno delle forme di dipendenza che può essere contrastato solo dalla riaffermazione vigorosa del concetto “utopico” di uguaglianza, morto tra le pieghe delle varie nomenklature di tipo sovietico».