Alessandro Ursic, La Stampa 5/3/2014, 5 marzo 2014
Singapore, dietro l’opulenza la folla degli schiavi del lusso È la città più cara del mondo, ma razzismo e sfruttamento ora mettono in crisi il modello Alessandro Ursic Mezzo secolo fa era poco più di un villaggio di pescatori all’Equatore appena lasciato dagli inglesi
Singapore, dietro l’opulenza la folla degli schiavi del lusso È la città più cara del mondo, ma razzismo e sfruttamento ora mettono in crisi il modello Alessandro Ursic Mezzo secolo fa era poco più di un villaggio di pescatori all’Equatore appena lasciato dagli inglesi. Oggi, Singapore è «la città più cara al mondo», secondo un rapporto appena pubblicato dall’Intelligence Unit dell’«Economist». Ma nella città-stato c’è poco da festeggiare: il primato arriva infatti sulla scia di un malcontento popolare in crescita da anni, così come le tensioni tra i singaporeani e i lavoratori stranieri sfruttati per mantenere una facciata di efficienza perfettina, e al tempo stesso capro espiatorio per il peggioramento della qualità della vita. Singapore è sempre più ricca. Un abitante su trenta è milionario, la città è una calamita per i plutocrati del resto dell’Asia, e il clima da «Grande Gatsby» ha prodotto super-lussi frivoli come un cocktail da 20 mila euro. Il settimo Pil pro-capite al mondo però non inganni: la classe media inizia a fare fatica. Problema comune ad altre società avanzate, certo, ma che a Singapore porta con sé angosce esistenziali sul futuro di un Paese grande come la metà del comune di Roma, senza risorse naturali, eppure abitato da 5,3 milioni di persone. L’etichetta di città più cara è opinabile: la classifica si basa su criteri rilevanti in particolare per un ambiente corporate di expat stranieri. L’apprezzamento della moneta nazionale (più 25 per cento sull’euro dal 2005, 40 per cento sul dollaro) ha anche un suo peso. Ma è vero che l’inflazione morde, i prezzi degli immobili sono ormai improponibili, e gli stipendi sono invece rimasti al palo. L’essere un’isola senza corsi d’acqua o fonti energetiche obbliga Singapore a tenere altissimi i prezzi delle utenze domestiche. Al contempo, i servizi sono meno efficienti anche a causa del recente incremento demografico, che dato il tasso di natalità bassissimo (1,3 figli per donna) è dovuto all’afflusso di lavoratori dall’estero. Con un terzo degli abitanti ormai straniero, il timore di molti residenti - per tre quarti di etnia cinese - è che l’attrattiva della città-stato contribuisca alla sua rovina. Così, la xenofobia è in aumento. Le colf indonesiane, i manovali indiani, i giardinieri filippini o gli spazzini bengalesi - spesso semi-prigionieri degli agenti che hanno procurato loro il visto - sono i lavoratori invisibili di quella che per anni è stata soprannominata la «Svizzera asiatica». Il risentimento è in crescita anche tra di loro. In dicembre, un incidente stradale che ha coinvolto un bengalese ha scatenato rivolte di strada a «Little India»: le prime a Singapore dal 1969. La crisi di identità passa anche dall’avvicinarsi dell’addio al «padre di Singapore», Lee Kuan Yew. L’ex premier, un leader che coniugava dinamismo asiatico e pragmatismo britannico, ha forgiato la sua creazione - nata con una separazione dalla Malaysia negli Anni Sessanta - a sua somiglianza: disciplina, zero corruzione, facilità nel fare business. Nessuna ideologia, ma al contempo un ferreo controllo del dissenso. Il messaggio ai cittadini era: non immischiatevi in politica, lasciate fare al «Partito di azione popolare» (Pap) e tutti ne beneficeranno. Per decenni ha funzionato, ma i tempi sono cambiati. Lee è ora un fragile novantenne e ha lasciato la politica (era da tempo «primo ministro mentore») nel 2011. Al governo rimane il figlio e come sempre il Pap, protetto da un sistema difficile da scardinare. Però i giovani sono più attivi politicamente, considerano il «modello Lee» superato, alle ultime elezioni l’opposizione ha conquistato il risultato migliore di sempre e c’è chi pensa che uno storico sorpasso sia possibile nel 2016. Sarà dura, ma intanto il contratto sociale si è rotto. Restano i conti da pagare, e sono tra i più salati al mondo.