Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera 5/3/2014, 5 marzo 2014
BALZAC NEL POZZO SENZA FONDO DEI DESIDERI
«Una mattina d’ottobre del 1830, a Parigi, un giovanotto entra in una delle case da gioco del Palais Royal». È l’incipit de La pelle di zigrino , il romanzo che, per vendite e recensioni, segnò una svolta nella carriera di Balzac, e oggi viene riproposto al centro del terzo e ultimo Meridiano dedicato dalla Mondadori alla Comédie humaine .
Di sera, nelle case da gioco, col clamore e le passioni non trattenute, aleggia una poesia volgare. Al mattino, i luoghi sono spettrali. A quell’ora, nelle stanze sudicie col parquet sconnesso, si incontrano i volti pallidi di chi non ha dormito tutta la notte, gli sguardi fissi in fondo ai quali si intuisce la disperazione che atterrisce. Raphael ha solo una moneta in tasca. La getta sul noir. Esce il rouge . Il giovane prende il cappello, esce, e va verso le Tuileries e la Senna. Parigi è triste. Il giovane vorrebbe suicidarsi nelle acque scure della Senna che osserva dal Pont Royal. Una bella donna che è appena scesa da una carrozza mostrando una gamba tornita, risponde al suo sguardo con indifferenza. Raphael oltrepassa il ponte e, in Quai Voltaire, entra nella bottega di un antiquario. Qui, una quantità debordante di oggetti provenienti dalle epoche più remote e dalle parti più diverse del mondo (mobili, quadri, soprammobili, lampadari, specchi, vasi di porfido, paccottiglie fra le quali spiccano tele di Poussin e Lorrain, Murillo e Velázquez) inducono nella sua mente uno stato di confusione che rasenta il sonnambulismo. Quale profondità ha il passato — pensa, salendo al primo piano. Ma ecco che, a distoglierlo dalle sue incerte meditazioni, appare un vecchiettino rinsecchito in una vestaglia di velluto. È l’antiquario. Ha un aspetto misterioso e mefistofelico — scrive Balzac. È il demonio, in realtà. I due si scrutano. E il vecchio, dopo aver mostrato al giovane nientemeno che un quadro di Raffaello, lo conduce davanti a quello che considera il suo tesoro: una pelle di zigrino (un onagro, una specie di asino) appesa alla parete. Sulla grana nera e lustra è incisa una iscrizione che recita: «Se mi possiedi possederai tutto. Ma la tua vita apparterrà a me. È volontà di Dio. Desidera e i tuoi desideri saranno esauditi. Ma regolali sulla tua vita. Essa è qui. A ogni tuo desiderio decrescerò come i tuoi giorni. Mi vuoi? Prendi. Dio ti esaudirà. Così sia».
È un momento fatale. Il vecchio tentatore dice: «Si può fermare il corso della vita? Infatti — aggiunge — nessuno ha mai voluto firmare il patto».
Raphael è inebetito. Fino a pochi minuti prima voleva suicidarsi. Ora ha una improvvisa voglia di vivere: per esempio, di un baccanale con giovani spregiudicati, vini, femmine ardenti. Si prende la pelle — mentre il vecchio gli ricorda che, da adesso in poi, il cerchio dei suoi giorni, rappresentato da quella pelle, si restringerà a ogni suo minimo desiderio — e si riaffaccia sul Quai Voltaire.
Fatti quattro passi, incontra un amico, Emile: un giornalista cinico e mondano che si sta per l’appunto recando a un banchetto. L’anfitrione è un uomo ricchissimo, tale Taillefer, il quale, avendo capito che il vero potere è ormai nella stampa, ha appena fondato un giornale il cui progetto sarà quello (certamente avveduto) di fare una opposizione che soddisfi i malcontenti e non nuoccia al governo. È una buona occasione di lavoro e di divertimento. Dunque, Raphael segue l’amico e i due entrano nel palazzo di Taillefer in cui sono riuniti gli «intellettuali» più in vista di Parigi . Lo sfarzo è da favola: pareti rivestite di seta e oro, candele ovunque, argenti, cristalli.
Inizia la cena. Vengono serviti i vini di Bordeaux e di Borgogna, poi quelli del Rodano e il Roussillon che dà alla testa. Così, rapidamente, attorno alla tavola imbandita, il clamore si fa altissimo come in un crescendo rossiniano; i discorsi incespicanti per via delle lingue impastate, spaziano dalla politica all’economia, dalla giustizia al destino; le battute diventano audaci; negli specchi compaiono volti sempre più arrossati, espressioni ilari e funebri al contempo. Poi, dopo il dessert — mentre i convitati con sempre maggior fatica cercano di afferrare un pensiero che li rassicuri sulle rispettive esistenze — come in un banchetto trimalcionico che si rispetti fanno la comparsa le donne: vere odalische, seminude, adorne di gioielli e piume. E, subito, figure allacciate si confondono con le sculture di marmo che adornano l’appartamento; i divani diventano triclini per scomposte carezze.
A questo punto, i lettori si aspettano la fine dell’orgia che dovrà ricondurre i partecipanti alla assai meno spensierata realtà quotidiana. Invece, con un atto di imperio narrativo, Balzac ferma la scena e lascia che Raphael racconti all’amico i diciassette anni che hanno preceduto la giornata incominciata nella sala da gioco e terminata nel banchetto notturno. È un racconto lungo, tuttavia necessario all’economia del romanzo, dal quale apprendiamo che Raphael, figlio unico di una madre morta, di nobile famiglia ma economicamente in rovina, e di un padre severissimo, ha avuto un’infanzia e una prima giovinezza totalmente prive di luce. Il dovere, la quasi povertà. Niente altro. Eppure, il ragazzo ha sempre avuto una immaginazione fervida, soprattutto per quanto riguarda le donne, ma ha dovuto reprimerla. Finché, dopo la morte del padre, per riscattarsi e cercare la gloria, si è rinchiuso per tre anni in una soffitta (come Balzac in rue Lesdiguières) dedicandosi solo allo studio, accudito da una tenera ragazzetta: Pauline, che in segreto lo ama, e da sua madre. Poi, nel 1829, incontra un amico: Rastignac, che cambia radicalmente la sua esistenza presentandogli la «donna che va di moda» in quel momento a Parigi: Fedora. Costei è una ricca e giovane avventuriera che ha sposato e abbandonato un conte russo. Ecco come la descrive Balzac: «Le labbra fresche e rosse spiccavano nel biancore intenso del volto. Il bruno della capigliatura metteva in risalto il colore dorato degli occhi, venati come una pietra preziosa di Firenze. Il busto era adorno delle grazie più attraenti». Fedora è bellezza, voluttà, morbidezza. La sua, tuttavia, è una morbidezza solo apparente. Lei, in realtà, non ama gli uomini: li lusinga, li seduce, ma non si lascia conquistare da nessuno. Raphael cade nella trappola e diventa presto la sua vittima. La segue ovunque: ai Bouffons, nei ricevimenti, nelle cene. È tutto inutile. Ogni profferta d’amore è rifiutata, e lui diventa pazzo. Una notte, addirittura, per spiare almeno il corpo che non può possedere, si nasconde nella sua stanza da letto mentre si sveste ed è abbagliato dal suo seno verginale, dal candore della sua pelle. Intanto, la povera Pauline vigila e soffre; i soldi guadagnati insieme a Rastignac con una fortunosa vincita alla roulette si assottigliano; e viene il giorno in cui Raphael non ha altro che una moneta in tasca, entra nella sala da gioco del Palais Royal e accetta il patto iscritto nella pelle di zigrino.
Il racconto è finito. È l’alba. Le carnagioni olivastre delle donne, splendenti alla luce dalle candele, adesso fanno orrore; i capelli pendono scomposti; le labbra secche degli uomini hanno le tracce dell’ubriachezza. Si procede alla colazione. Quand’ecco il colpo di scena. Entra un notaio che ha cercato tutto il giorno precedente Raphael e, nel silenzio sbalordito dei presenti, gli comunica che un lontano zio lo ha lasciato erede di una colossale fortuna. Raphael ha un brivido. Poco fa, di fronte all’amico incredulo, aveva steso la pelle di zigrino su un tovagliolo e ne aveva segnato con una matita i contorni. Lo fa di nuovo e vede che la pelle si è ristretta. È la morte.
Siamo al finale. Raphael è ricco, vive in un palazzo lussuoso, ma si impedisce ogni minimo desiderio. Ha lo sguardo doloroso della disperazione. Poi, una sera, all’Opera, incontra Pauline. Anche lei ha ereditato ed è diventata una donna bellissima. Scoppia, tra i due, un amore profondo: l’amore vero. Raphael non vuole più credere al talismano e lo getta in un pozzo del giardino.
La gioia dei due amanti è indescrivibile. Senonché, un giorno, il giardiniere ripesca nel pozzo uno «strano oggetto»: è la pelle di zigrino, che si è enormemente rimpicciolita. Raphael impallidisce. «Sei il mio boia!» grida, guardandola. Pauline non capisce. Lui la allontana e, in un pietoso pellegrinaggio fra gli «scienziati» parigini, prova invano ad aggiustare la pelle. C’è, quindi, un’ultima notte d’amore e un illusorio risveglio, molle, radioso, fra le lenzuola gualcite, gli indumenti abbandonati la sera prima, le calze sfilate, quale avrebbe potuto dipingerlo solo Fragonard. Ma una tosse secca, terribile, scuote il petto di Raphael. Accorrono i medici che impongono al malato di cambiare aria. Raphael fugge dalla persona che desidera e va in Savoia. Le sue condizioni, nonostante un soggiorno in un luogo ameno presso un’umile famiglia di pastori, peggiorano ogni giorno. Il talismano si riduce sempre di più, fino a diventare delle dimensioni di una fogliolina di pervinca. Raphael torna a Parigi. Riappare Pauline e lo culla con immenso amore (ma noi sappiamo, perché Raphael glielo ha detto: «Ci sono abissi che l’amore non può valicare, per quanto forti siano le sue ali »). Fra le braccia di Pauline, Raphael chiude gli occhi.
Si chiude, così, il romanzo del patto faustiano. Tuttavia, noi capiamo — lo abbiamo intuito dapprima confusamente, leggendolo, poi con sempre meno incertezza — che il capolavoro di Balzac non è solo il romanzo del patto col demonio al quale cediamo, in cambio del potere e della gloria, i nostri giorni. Pelle di zigrino, nella sua più nascosta verità, è il romanzo che descrive il senso della colpa. Quel senso oscuro e misterioso che ognuno di noi — senza aver fatto alcun patto col diavolo — sente dentro di sé quando realizza un desiderio (anche il più innocente) e s’accorge, all’improvviso, che la sua felicità trema.