Antonio Gnoli, la Repubblica 2/3/2014, 2 marzo 2014
Biografia di Lea Vergine raccontata da lei medesima
Sembra di attraversare una nuvola di bianca tristezza. E invece sono le sue parole. Quelle di Lea Vergine. Un nome d’artista, pensavo. In realtà critica d’arte che ha scritto saggi acuti e importanti sul linguaggio del corpo e la Body art. E di lei avevo apprezzato, giusto un paio di anni fa, la bellissima mostra, curata al Mart di Rovereto, sul gruppo di Bloomsbury. Ha una voce piena di spigoli. Lea. Che sembra dica: stai abusando della mia pazienza. In realtà sono soprattutto le Esportazioni che fuma a eccitare una certa asprezza. Una certa rabbia che l’età non più giovane contiene con rassegnata saggezza. Contro chi? Le chiedo. Mi guarda incuriosita: «Contro me stessa innanzitutto. Conosco come pochi l’arte dell’autolesionismo». E allora torna quella sensazione di tristezza iniziale. Quelle parole che scendono come pioggia invisibile. Lea è stata una donna bella. Non che non lo sia ancora. Ma è infastidita dal ricordo di un’immagine remota. Dalla tara che ogni memoria deve fare su di sé. Dall’avvilimento che non siamo più ciò che un tempo fummo. Mi guarda perplessa dalla teatralità morale dello studio milanese dove sediamo. I libri, i cataloghi, le schede raccontano «la vita, forse l’arte», come recita il titolo del suo nuovo libro appena edito da Archinto.
Quando ha avuto questa sensazione?
«Quale sensazione?».
Di essere cambiata. Di non essere più quella di una volta.
«C’è stato un momento in cui ho pensato che i miei piccoli anni eroici non andassero più visti nella compostezza dell’indifferenza, come qualcosa che semplicemente non c’era più. Ma nel vuoto che avevano scavato. In quel momento ho provato la sensazione che la malinconia non fosse più un sentimento sterile, ma dannoso».
Collocabile in quale tempo?
«In questi anni, così prossimi da sentirne il respiro e il disagio, anni in cui tutto è maledettamente cambiato».
In peggio?
«È una china invisibile. Si scende senza far troppo rumore. Cosa c’è di più deprimente?».
Ma è una depressione che ha origine dalla memoria o dal fisico?
«Direi da entrambi. Se penso alla mia nascita mi vedo senza una madre e consegnata ai nonni all’età di tre mesi».
Cosa accadde?
«Venni concepita, fuori dal matrimonio, da una fanciulla totalmente estranea al mondo di mio padre. Una ragazza povera, bella e sventata. Nel 1938 non si davano nozze riparatrici. Mio padre, famiglia borghese, si presentò a mia nonna, una Ruffo di Calabria, e disse: “Mammà, ho una figlia”».
Suo padre cosa faceva?
«Era laureato in legge. Ma i sogni si legavano alla musica. Il nonno lo mise davanti alla scelta: abbandoni la musica ed entri in uno studio legale e noi ci occuperemo della piccola».
E si occuparono di lei?
«Pienamente. Sono stata con loro per lungo tempo. A Napoli. Crescevo con le attenzioni che si dedicano a una signorina. Ero bella e agiata. Ma anche stupida».
Stupida?
«Non nel senso dell’oca giuliva. Ma per le opportunità che ho mancato nella vita. Ho sempre fatto il contrario di ciò che sarebbe stato meglio per me. Non sono mai stata capace di scegliere il male minore ».
È considerata tra le eccellenze della critica d’arte. Perché si denigra?
«Quello che ho realizzato nel mondo dell’arte avrei potuto farlo con mille altri mestieri. Dov’è l’unicità? Aver scritto di artisti che pensano che il loro mondo sia il mondo? E che tutto inizia e finisce varcata la soglia del loro studio?».
In fondo sono loro le primedonne. Perché sorprendersi o restarne delusi?
«Perché dietro il “genio” scopri spesso l’ometto, la mezza calza umana. Ricordo la volta che andai a Parigi a trovare Jean Fautrier. Mi aspettavo di incontrare un maestro. Vidi quest’uomo sdraiato nel suo atelier circondato da un clan di fanciulle che lo accarezzavano. Restai allibita. Dai suoi sorrisetti, dalle sue frasi ambigue di vecchio Ganimede».
Però un grande artista.
«Non ne dubito, almeno nel suo caso. Ma ciò che le racconto non è per puro pettegolezzo, ma perché sono convinta che uno dei risultati della modernità è il divorzio tra ciò che sei e ciò che appari».
Le dà così fastidio?
«Non mi dà fastidio. Constato la presenza di più stili di vita e di maschere. Semmai quello che ho notato più spesso negli artisti è ciò che gli psichiatri chiamerebbero disturbo della personalità. Sono spesso legati al proprio Io in maniera patologica ».
A chi pensa?
«Una persona, che pur nella mediocrità del proprio talento, ha saputo sfruttare le numerose potenzialità del proprio Io è stato Salvador Dalì».
Un artista scandaloso che fiutò il proprio tempo come un cane da caccia la sua preda.
«È vero, aveva fiuto. Ma non si tradusse mai in una grande opera. Fu un surrealista di terz’ordine; un mitomane in grado di autopromuoversi come pochi. I suoi quadri “metafisici” non hanno nulla della grandezza allucinatoria di De Chirico, le sue opere scandalose viste oggi sono solo rancidamente sentimentali o oleografiche ».
Eppure, è considerato un grande del Novecento.
«Ci sono ragioni diverse da quelle smaccatamente commerciali? Tutto in lui è stato kitsch e pop».
Buñuel, per fare un solo esempio, vide in quest’uomo contraddittorio l’artista totale.
«Buñuel gli fu amico in gioventù. Ma non smise mai di considerarlo un esibizionista e, per le sue idee politiche, un cinico che si mise a disposizione del franchismo. La protervia del suo Io si tradusse in qualcosa di grottesco. Corteggiò Freud senza esito. Volle ingraziarsi Lacan, che era stato surrealista, senza riuscirci. Si è dovuto accontentare dell’omaggio di Armando Verdiglione».
È molto dura e sarcastica verso gli altri.
«Forse perché lo sono verso me stessa. Bisogna saper ritrovare negli altri le proprie patologie».
Da quali è affetta?
«Il mio psichiatra mi assicura che non sono psicotica, come certi artisti, ma solo una banale nevrotica».
Sembra quasi delusa.
«No, affatto. Ma l’arte, quella vera, si nutre di follie insondabili e di sofferenze e dolori profondissimi. Da dove crede sia nata la serie Otages, gli “Ostaggi”, che Fautrier dipinse tra il 1942 e il ‘45, se non dallo sconvolgimento per le atrocità commesse dai nazisti?».
L’arte ha solo l’aspetto tragico?
«È il lato che più di ogni altro mi ha coinvolto. L’arte di oggi, invece, è sempre meno una faccenda di persone per bene».
In che senso?
«È un luogo dove non ci sono quasi più valori tragici, ma solo prezzi di mercato».
Può immaginare un’arte senza il mercato?
«Sarebbe impensabile. In passato accadeva però che una nuova tendenza – pensi all’Impressionismo, alla Body art o all’Arte Povera – nascesse in contrasto con il mercato e solo in un secondo momento ne veniva riassorbita. Oggi il “mercato” è il feticcio per eccellenza. Ma la verità è che siamo in uno stagno dove sguazzano piccoli squali travestiti da papere».
Chi decide?
«Non è più il mercante o il gallerista a determinare le cose. Sono i collezionisti a stabilire le quotazioni di un artista o chi deve dirigere il tal museo o il talaltro. In fondo non è neanche così insolito. Nel Cinquecento era la committenza di principi e cardinali a decidere il destino dell’arte. Allora non andò così male».
E i critici?
«Annaspiamo. Ricorda qualcosa di memorabile, al di là delle contese da cortile? Siamo come quei battitori di tamburi disposti lungo una battuta di caccia per spaventare la tigre. Una volta, a Procida, incontrai Cesare Brandi, grande storico dell’arte, cultura poliedrica con tendenze omo. Fece una mossetta e poi con quel suo accento senese mi disse: “Fiorellino, mi spiace dirtelo, ma non hai più il fulgore di una volta”. Ecco, non abbiamo più il fulgore. Ci siamo spenti».
Ha conosciuto anche Argan?
«Molto bene. Un giorno mi raccontò che aveva passato parte dell’adolescenza nel manicomio di Torino, dove sembra che il padre ricoprisse qualche incarico. Mi disse che spesso faceva giocare la piccola Carol Rama, che credo avesse ricoverata la vecchia madre. Pensi che allegria!».
Cos’è per lei la felicità?
«Non saprei. Mi sono quasi sempre sentita alla stregua di un cane. C’è un dipinto di Botticelli nel quale si vede una ragazza con la testa china, le mani che nascondono la faccia, si intitola La derelitta. Ecco, mi sento così».
Cosa pensa di dover espiare?
«Dicono che sono un po’ cattivella. La verità è che sono cresciuta nella paura di sbagliare e di non essere accettata».
Che rapporto è stato quello con suo padre?
«Per me è stato come un fidanzato che vedevo poco. Credo che mi amasse molto e quando è morto, all’età di 46 anni, sono stata malissimo. Mi ha inferocito quella morte. Come se mi avessero rubato la cosa più preziosa. Per vent’anni non sono riuscita a parlarne. E per mettere tutto a tacere, poco dopo, mi sposai. Un matrimonio compensatorio durato nove anni. Non mi sarei aspettata che alla fine di quella lunga e noiosa stagione avrei ritrovato il grande amore».
Nella persona di chi?
«Di Enzo Mari. Mi sarei volentieri trasferita a Roma, volevo vivere nella bellezza meteca e sguaiata di quella città. Per Enzo decisi di andare a Milano. Era il 1966. Stiamo insieme da 48 anni. E nei suoi riguardi ho sviluppato un’ossessione amorosa».
Che tradurrebbe come?
«Una situazione in cui sai che non puoi fare a meno dell’altro, anche se tutto consiglierebbe che dovresti allontanartene. È questo che intendo. Una malattia, come tutte le ossessioni».
Lei ha scritto ne La vita, forse l’arte: «È un pezzo che Milano è diventata un luogo a forte rischio di ridicolo». Di cosa l’accusa?
«Quando vi arrivai mi parve una città bruttina ma gradevole. Piena di voglia di fare. Adesso è giuliva come un cimitero. Una città sciagurata ».
Una città in ogni caso importante per l’arte.
«Per la musica continua a esserlo. Ma per il resto? E poi quando mai è stata rilevante per l’arte? Importanti furono Torino e Roma. Non certo Milano, la cui riconoscibilità finì con Lucio Fontana. Che fu un uomo stupendo e generoso. Assolutamente raro in un mondo afflitto da egolatria».
Che visione si è fatta del mondo in cui vive?
«La visione vorrebbe essere disincantata».
Crede in Dio?
«Non credo dall’età di 14 anni. Però certe notti, mentre mi rivolto nel letto, metto la testa sotto il cuscino e dico: chiunque tu sia fammi morire nel sonno. Almeno questo concedimelo».
In cambio di cosa?
«Del dolore, dello smarrimento, dell’ansia, del panico. Sono conciata malissimo. Chiedo solo un piccolo risarcimento. Del resto questi ultimi anni sono stati un vortice di sorprese e non tutte gradevoli».
Cosa è accaduto?
«Con Enzo ci siamo fortemente impoveriti. Siamo un esempio antropologico di quella classe media, un tempo orgogliosa e florida, oggi messa a durissima prova. Inoltre sono stata operata al cuore. Un organo ricostruito, come dico io, con dei pezzi presi da una mucca. Ogni volta che passo davanti a una macelleria penso al sacrificio di quei poveri animali».
È sempre così paradossale?
«Paradossale? Diciamo lievemente patetica».
E un po’ snob. Non trova?
«Lo snobismo è morto da tempo. Va di moda il grottesco. Lo snobismo fu un’arte difficile, severa, sempre sul punto di cadere nell’affettazione. Una snob straordinaria fu Virginia Woolf».
Come del resto lo fu tutto il circolo di Bloomsbury.
«Me ne sono occupata. E sono giunta alla conclusione che solo Virginia poteva aspirare a quella forma di “santità”. Gli altri – come Lytton Strachey, Vanessa Bell, Duncan Grant e lo stesso grande economista Keynes – furono piuttosto personaggi intelligentissimi, curiosi e forniti di quella promiscua libertà che li portava, tra loro, ad andare a letto con tutti. Si opponevano al regime vittoriano e furono uno degli ultimi esempi di una società letteraria autoreferenziale».
E lei?
«Io cosa?».
Si sente dentro un mondo chiuso o autoreferenziale?
«Molte immagini esterne mi rimandano i miei stati d’animo. Ma cosa posso farci? Più invecchi e più ti isoli. I vecchi non credono più all’anagrafe. Ma c’è un momento della giornata in cui tornano giovani, quando avevano i loro sogni nelle tasche. Poi basta passare davanti a uno specchio o uscire da una doccia perché l’incantesimo si rompa».
È il corpo che non mente?
«Ci parla. E non è arte. Non sono discorsi. È solo nuda vita».