Goffredo De Marchis, la Repubblica 2/3/2014, 2 marzo 2014
BERSANI: AIUTERÒ MATTEO A DIVENTARE PIÙ CONCRETO
LA DIFFERENZA tra il prima e il dopo l’operazione è che Pier Luigi Bersani è più spigoloso. Sparite le metafore celebrate da Maurizio Crozza e, con loro, un po’ della bonarietà emiliana. Magari non è un male.
QUANDO le domande non gli piacciono o sono «fuori luogo» taglia corto. «La presidenza del Pd? Casomai si ponesse il problema, ascolterete la mia risposta ». Alla seconda uscita pubblica, l’ex segretario del Pd sceglie il congresso del Partito socialista europeo. Ancora applausi a scena aperta, come durante il voto di fiducia alla Camera martedì. E una processione di persone che vogliono scambiare una parola, ricevere un buffetto, sincerarsi del suo stato di salute. Che appare ottimo.
Bersani considera l’adesione dei democratici un «evento storico». Ci ha messo anche del suo, del resto. Infatti la platea, scaldata da un annuncio al microfono, gli tributa una standing ovation, Martin Schulz lo saluta con calore. Bersani si sistema nella seconda fila. Giacca e cravatta, tiene in mano la cartellina con il manifesto del Pse. Riceve i saluti di tanti ospiti stranieri e italiani. Matteo Renzi, dal palco, lo definisce «il mio amico». E non è un azzardo perché Bersani spiega di «non essere in cerca di rivincite. La sinistra italiana ha già conosciuto troppe divisione e troppe lotte intestine. Io ho votato il governo con spirito collaborativo. Se c’è da dare una mano e rendere più chiari gli obiettivi, ci sono».
Anche sul Jobs Act? Lei ha sempre detto che il problema del lavoro non sono le regole ma gli investimenti.
«Ed è così. Detto questo il nostro modello non funziona più e in giro per il mondo ce ne sono di migliori».
Nel piano di Renzi potrebbe entrare la flex security. È il modello giusto?
«Sulla flex security sono d’accordo. Il problema è che costa tantissimo. Bisogna trovare le risorse e devono essere tante. Ma se si riuscisse a tirarle fuori un sostegno di 4 anni alle persone che perdono il lavoro può sostituire l’articolo 18».
Significa infrangere il grande tabù della sinistra, consentire la libertà di licenziamento.
«Il grande tabù della sinistra purtroppo è già sostituito in molti casi dalla cassa integrazione in deroga. Allora sarebbe molto meglio scegliere la strada di un reddito di disoccupazione che dura 4 anni magari accompagnandolo a un efficace sistema di formazione professionale. Sarebbe una soluzione ancora migliore».
Però mancano i soldi.
«L’Italia scelse la cassa integrazione ordinaria, molti anni fa, proprio perché era un sistema meno oneroso dal punto di vista finanziario. Con la crisi di oggi però non basta più e quando la cassa è in deroga il modello somiglia sempre di più alla flex security senza averne le regole e in contrappesi. È chiaro perciò che bisogna cambiare, ma dicendo come e con quali risorse. Altrimenti ci si pone un obiettivo irraggiungibile».
La minoranza del Pd aspetta un passo falso di Renzi per saltargli addosso?
«Parlo per me: non è questo il mio spirito. Io non cerco rivincite. E penso che il centrosinistra ha già vissuto molte lotte fratricide che non hanno portato bene».
È diventato renziano?
«No. Anzi: ripeto che il premier e il suo governo non brillano per umiltà. Il punto è che hanno creato aspettative altissime ma resta l’indeterminatezza degli obiettivi. Alcuni sono vaghi, altri sono senza coperture. Se bisogna aiutare Matteo a rendere più concreti i suoi progetti, noi lo aiuteremo».
Accettando la presidenza del Partito democratico? Si dice che lei sia il candidato più probabile dopo le dimissioni di Cuperlo.
«Questa è una domanda da non fare. Non all’ordine del giorno».
E se gliela facesse Renzi?
«Casomai si ponesse il problema, sentirete la mia risposta».