Renato Pezzini, il Messaggero 2/3/2014, 2 marzo 2014
IL NUOVO PIGNONE LA PRIVATIZZAZIONE È UN SUCCESSO
FIRENZE
Ventuno anni fa, quando il governo Amato annunciò di voler mettere in vendita il Nuovo Pignone, i dipendenti caricarono i compressori sui muletti e li portarono in piazza della Signoria. Come a dire: «Questi sono i nostri gioielli, li comprano in tutto il mondo perché nessuno li sa fare come noi. E adesso ci volete vendere?». Avevano paura gli operai, gli impiegati, e avevano paura anche i dirigenti come Massimo Messeri: «L’azienda che era del gruppo Eni andava bene, faceva utili. C’era un naturale timore dell’ignoto».
Ora Messeri è il presidente di Nuovo Pignone, e mostra il grafico che racconta senza equivoci quel che è accaduto in questi vent’anni, da quando cioè «gli amerihani» di General Eletrics hanno comprato l’azienda: volume d’affari cresciuto di 7 volte, numero dei dipendenti in costante aumento, fatturato della «GE Oil and Gas» (l’azienda capofila nata proprio dopo l’acquisizione del Pignone) passato da un miliardo di dollari a venti miliardi. E il presidente Messeri, come tutti, ha cancellato le perplessità iniziali: «E’ stato un matrimonio riuscitissimo».
L’ASTA
Matteo Renzi, quando Amato decise di mettere all’asta una delle più efficienti aziende pubbliche italiane, portava ancora i calzoni corti. Però ora ha messo «la fabbrica di Firenze» nel suo pantheon, ne parla appena può e meglio che può: «La madre di tutte le privatizzazioni» dice. Pure nel discorso al Senato, prima della fiducia, ha aperto un capitoletto sul Nuovo Pignone indicandolo come un modello da seguire, un esperimento da ripetere. E per una volta sono tutti d’accordo con lui, azienda, lavoratori, sindacati. Un piccolo miracolo italo-americano. In giro per le città del mondo ci sono ancora i tombini o i lampioni in ghisa marchiati «Fonderia del Pignone. Firenze». Ma quella è una storia vecchia di centocinquant’anni. Dopo la guerra la società, in quota alla Snia, s’era già dedicata alla meccanica di precisione, ma sembrava sul punto di collassare. Una tragedia visto che il Nuovo Pignone stava a Firenze come la Fiat stava a Torino: imprescindibile. Il sindaco La Pira nel 1954 convinse Enrico Mattei a intervenire, Eni acquistò la società che entrò così nel carrozzone del pubblico.
Da allora nello stabilimento di Rifredi si fanno turbocompressori per l’estrazione di gas e petrolio. Macchinari di grande precisione. Su 4400 dipendenti appena 500 sono operai (tutti diplomati). Gli altri sono impiegati, ricercatori, ingegneri: «Il 52 per cento ha una laurea» s’inorgoglisce Messeri, ingegnere pure lui. Ha ragione poiché il segreto di Nuovo Pignone sta nell’altissimo livello tecnologico: «Quando ci fu l’acquisizione noi mettemmo a disposizione l’eccellenza dei nostri prodotti, General Electric capacità di programmazione e sviluppo».
Daniele Calosi era un delegato della Cgil alle prime armi quando i dipendenti arrivarono coi muletti in piazza della Signoria. Ora è segretario della Fiom fiorentina e gli piace rivendicare per il sindacato una parte di merito: «Amato pur di fare cassa era disposto a svendere un’azienda che funzionava, per questo ci opponemmo». Però, quando capirono che la cessione era inevitabile, provarono a pilotarla: «Non volevamo finire nelle mani dei nostri concorrenti diretti della Dresser, alla lunga ci avrebbero fagocitato».
Così, attraverso un europarlamentare dei Verdi, fecero intervenire l’antitrust europea che giudicò improponibile l’incorporazione di Nuovo Pignone in Dresser. Claudio Giardi, 60 anni, delegato Fiom dello stabilimento di Rifredi rammenta che «quando vennero in visita i dirgenti di General Electric consegnammo una lettera per dire che volevamo che fossero loro i nostri acquirenti». Il presidente Messeri ricorda che «quando capimmo che saremmo finiti con GE, per i quali già lavoravamo in licenza, le nostre perplessità sulla privatizzazione svanirono». Tutto questo per dire che se quella del Nuovo Pignone è la «madre di tutte le privatizzazioni» come sostiene Renzi, è anche vero che c’è modo e modo di privatizzare. Ci vuole l’acquirente giusto, ci vuole il piano di sviluppo giusto, ci vuole «la qualità italiana», ci vogliono anche rapporti sindacali buoni: «Noi della Fiom» dice ancora Calosi «abbiamo 1200 iscritti in azienda. Abbiamo dimostrato di non essere ideologici, di lavorare per il futuro della società».
Renato Pezzini