Vittorio Criscuolo, La Lettura 2/3/2014, 2 marzo 2014
ELBA, IL NIDO BORGHESE DELL’AQUILA IMPERIALE PRIMA DELL’ULTIMO VOLO
Il 3 maggio 1814, nello stesso giorno in cui Luigi XVIII faceva il suo ingresso a Parigi, la fregata inglese che portava Napoleone all’isola d’Elba giungeva nella rada di Portoferraio. Era stato lo zar di Russia Alessandro I, entrato nella capitale francese il 31 marzo 1814 alla testa delle forze coalizzate, a concedergli con il trattato di Fontainebleau la sovranità dell’isola e un appannaggio annuo di 2 milioni a carico del tesoro francese, in cambio della rinuncia a ogni pretesa sulla Francia. Il cancelliere austriaco Metternich e il ministro degli esteri inglese Castlereagh, giunti a Parigi qualche giorno dopo la firma del trattato, sapevano bene quanto pericolosa fosse la presenza di Napoleone a pochi chilometri dalle coste italiane, ma ormai era impossibile tornare indietro.
Il 4 maggio, vestito con l’abito verde dei cacciatori della Guardia imperiale, Napoleone sbarcò sull’isola, accolto dalla popolazione con un moto di stupefatto entusiasmo, nel quale non mancava una certa inquietudine per quell’evento che veniva a sconvolgere la quiete dell’isola. Sui forti di Portoferraio sventolava già la bandiera che lo stesso Napoleone aveva ideato per il suo regno: bianca attraversata da una banda diagonale rossa con tre api d’oro.
Colpito dalla magnifica vista sul mare che offriva il giardino, egli scelse come sua residenza la Villa dei Mulini, e fece costruire poi una villa di campagna fra i vigneti della valle di San Martino. Poiché il trattato di Fontainebleau gli garantiva il mantenimento del rango e dei titoli, ripristinò il cerimoniale di corte. Mise insieme anche una biblioteca che potesse soddisfare la sua passione per la lettura. I veterani della guardia dicevano scherzando che Villa dei Mulini era il palazzo delle Tuileries, e San Martino il castello di Saint-Cloud. In effetti lo scenario era lontano dalla passata grandezza; il primo cameriere Marchand, che lo avrebbe seguito anche a Sant’Elena, osservò che tutto era come alle Tuileries, ma in miniatura. Tutto sembrava insomma un po’ finto, e l’abitudine dei pranzi domenicali della piccola corte restituisce quasi l’immagine di un interno borghese.
Della sua famiglia lo seguirono solo la madre e la sorella Paolina. Egli attese invano l’arrivo del figlio e della seconda moglie Maria Luisa, figlia dell’imperatore d’Austria. Le sue lettere non ebbero risposta: nel ducato di Parma che le era stato assegnato, ella si era legata ormai con un ufficiale austriaco, il conte Neipperg, che avrebbe sposato nel 1821. Quanto al figlio, era di fatto un ostaggio alla corte di Vienna. Spinti dall’ammirazione o dalla curiosità, numerosi visitatori si recarono nell’isola; fra essi anche la polacca Maria Walewska con il figlio avuto da Napoleone. Grazie soprattutto a Paolina, frequenti furono le feste, i balli e le rappresentazioni teatrali, per le quali Napoleone fece trasformare una chiesa in disuso.
Fin dai primi giorni l’imperatore diede vita ad una frenetica attività, che sconvolse la sonnacchiosa vita dell’isola. Si preoccupò innanzitutto della sicurezza, rafforzando le fortificazioni e sistemando delle batterie nelle isole di Pianosa e Palmaiola. Curando personalmente ogni dettaglio, provvide alla costruzione e alla manutenzione delle strade, all’igiene pubblica e alla sanità. Si sforzò anche di promuovere l’agricoltura, anche attraverso l’introduzione di nuove colture, di incrementare la pesca, di migliorare lo sfruttamento delle miniere di ferro, iniziative che rimasero per lo più allo stato di progetti. Non bisogna credere però che questo frenetico attivismo servisse soprattutto a mascherare il desiderio di fuga: il ritorno in Francia fu deciso solo quando se ne realizzarono le condizioni.
Certo, egli poteva lamentare l’impossibilità di ricongiungersi alla moglie e al figlio, e il mancato pagamento dell’indennità da parte del governo francese. Sorvegliato da spie di tutte le potenze, egli temeva anche che il governatore della Corsica avesse l’incarico di assassinarlo. A novembre giunsero dal Congresso di Vienna, dove le potenze vincitrici erano riunite, voci di una possibile deportazione a Santa Lucia o a Sant’Elena. Ma soprattutto risultarono decisive le notizie sulla situazione interna della Francia ricavate dai giornali, dai viaggiatori, dagli emissari bonapartisti: la smobilitazione dell’esercito, l’arroganza di emigrati e ultrareazionari che mettevano in discussione la Carta costituzionale concessa da Luigi XVIII, l’offensiva clericale avevano creato un diffuso malcontento nei confronti della restaurata monarchia borbonica.
Approfittando di un’assenza temporanea dell’ufficiale inglese incaricato di controllarlo, Napoleone organizzò in tutta fretta i preparativi per la partenza. Non mancarono in seguito voci secondo le quali l’Inghilterra avrebbe favorito ad arte la fuga per sbarazzarsi definitivamente del nemico. Nella notte del 26 febbraio Napoleone lasciò l’isola con circa mille uomini, stipati sulla fregata «L’Inconstant» e su altre sei imbarcazioni. Senza incrociare le navi francesi che pattugliavano il mare, Napoleone giunse nel Golfo Juan il 1° marzo e arrivò attraverso le Alpi a Grenoble e poi a Lione, dove fu accolto trionfalmente dalla popolazione.
Il maresciallo Ney, inviato ad arrestarlo, passò dalla sua parte. Così senza alcun ostacolo egli poté rientrare il 20 alle Tuileries, mentre Luigi XVIII fuggiva in Belgio. La notizia della fuga giunse a Vienna il 7 marzo, e subito Inghilterra, Austria, Prussia e Russia rinnovarono la loro alleanza, mettendo Napoleone «al bando delle relazioni civili»: ancora una volta egli era solo di fronte all’Europa. Ebbe il sostegno dei soldati, dei contadini, dei lavoratori delle città, mentre la borghesia e i notabili rimasero freddi. Il volo dell’Aquila, giunta di campanile in campanile fino a Parigi, rinverdiva i fasti della leggenda. Ma la Francia intuiva oscuramente che questa avventura non poteva portarle nulla di buono: dopo Waterloo la pace fu ottenuta a condizioni ben più dure rispetto all’anno precedente. D’altra parte il ritorno di Napoleone dimostrò che era impossibile ogni conciliazione fra gli eredi della rivoluzione e i fautori dell’antico regime: due France ormai si confrontavano, inconciliabilmente nemiche, e il loro conflitto avrebbe caratterizzato a lungo la storia della nazione.