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 2014  marzo 02 Domenica calendario

C’È UNO ZIO ALL’ORIGINE DELL’UMANIT


Una vecchia battuta che circola tra gli addetti ai lavori dice che se la teologia si occupa di Dio e la psicologia dell’Io , l’antropologia (culturale o sociale) si interessa piuttosto allo... zio . In effetti la parentela è stata, fin dalle origini tardo ottocentesche della disciplina, uno dei suoi temi privilegiati. La parentela è un fenomeno che unisce e differenzia al tempo stesso le società umane: le unisce perché nessuna di esse può esimersi dal dare forma e significato ai fatti della nascita, del matrimonio e della discendenza; le differenzia perché questi processi, lungi dal seguire automatismi biologici, sono culturalmente plasmati.
Nel suo ultimo libro Antropologia sociale delle origini umane , di prossima uscita in Italia per il Mulino, Alan Barnard propone un uso innovativo e, per molti versi, imprevisto degli studi sulla parentela. Lo studioso britannico, specialista di cacciatori e raccoglitori (oggi si preferisce l’espressione «società acquisitive»), ritiene che gli antropologi sociali dovrebbero mettere a frutto le loro conoscenze sulle società contemporanee per comprendere le lontane origini dell’umanità. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il discorso sui processi di ominazione è stato progressivamente fatto proprio dalla paletnologia, dall’archeologia e dall’antropologia biologica; più di recente, dalla linguistica, dalla genetica e dalle neuroscienze. E gli antropologi sociali? Non hanno nulla da dire sulle prime società umane?
In realtà, l’esperienza etnografica, le teorie e i concetti elaborati nello studio di una variegata molteplicità di culture, se integrati con le acquisizioni e le conoscenze maturate dalle altre discipline, potrebbero rivelarsi molto produttive. Il metodo è quello dell’«analogia etnografica» — proiettare sul passato dati relativi a studi compiuti sul campo, incrociandoli con le «evidenze» e le inferenze di altre discipline. Quella proposta da Barnard è, per riprendere il titolo dell’ultimo capitolo del libro, «una nuova sintesi»: una definizione impegnativa, che fa il verso al celebre libro di Edward Wilson Sociobiologia. La nuova sintesi (Zanichelli, 1979). La «nuova sintesi» di Barnard è tuttavia lontana dalla sociobiologia: non si tratta di riportare il sociale al sostrato biologico, ma di proiettare gli studi su parentela, etnicità, scambio, riti e miti sulle lontane origini dell’umanità.

Prendiamo come esempio proprio la parentela e il modo in cui può essere connessa alle tre grandi rivoluzioni che, secondo Barnard, caratterizzano il processo evolutivo che porta a Homo sapiens . Seguendo da vicino i lavori di Aiello e Dunbar sulla coevoluzione tra dimensione della neocorteccia e dimensione dei gruppi e quelli di Calvin e Bickerton sul linguaggio, Barnard ipotizza che la prima «rivoluzione del significante» abbia avuto luogo nel lungo passaggio tra le australopitecine e la comparsa di Homo habilis (quest’ultimo visse tra 2,3 milioni e 1,4 milioni di anni fa). Se le prime vivevano in gruppi di 65-70 individui, Homo habilis contava circa 75-80 individui e i successivi Homo erectus (1,9-1,4 milioni di anni fa) e Homo ergaster (1,8-1,3 milioni di anni fa) circa 110. In questa lunga fase, gli Homo impararono a dare nomi alle cose e, secondo l’ipotesi di Barnard, a strutturare il campo della parentela. Comparvero probabilmente in questa fase i termini per designare il «padre» (il padre biologico, i suoi fratelli e forse tutti gli individui maschi della loro generazione), la «madre», i «fratelli»: termini di tipo classificatorio, simili a quelli che Louis Henry Morgan ritrovò a metà Ottocento tra i nativi americani. Questa prima rivoluzione è detta anche «della condivisione» perché i cacciatori e raccoglitori delle origini, adottata una dieta carnea, dovettero elaborare precise regole per condividere cibo e attrezzi. Forse, come per gli attuali cacciatori e raccoglitori del Kalahari (Africa australe), gli artigiani che realizzavano gli attrezzi per la caccia avevano diritto a una parte della preda.
La «rivoluzione sintattica» segna il passaggio alle forme arcaiche di Homo sapiens . Il linguaggio consente ora di formulare frasi e di distinguere «noi» e «loro»: Homo heidelbergensis (tra 600 mila e 250 mila anni fa) vive in gruppi di 120 individui circa. Dal punto di vista della parentela, prende forma la distinzione tra i fratelli e le sorelle della madre: una distinzione cruciale, perché i discendenti dei fratelli (cugini incrociati) danno vita a gruppi in cui si può trovare un coniuge, mentre i discendenti delle sorelle (cugini paralleli) formano gruppi in cui non si può contrarre matrimonio. Nasce insomma l’esogamia, ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo. È la scintilla che innesca la dinamica dello scambio, di uomini e donne e delle «cose» che li accompagnano.
La terza rivoluzione o «rivoluzione simbolica» vede la nascita di Homo sapiens anatomicamente moderno (circa 200 mila anni fa) e «fu, in un certo senso, à la Lévi-Strauss. La vera parentela coincide con l’emergere di strutture elementari di parentela», scrive Barnard. Uomini e donne vivono in gruppi di circa 150 persone — secondo l’ipotesi di Dunbar il limite massimo della comunità basata sui rapporti faccia a faccia. La sintassi è ormai pienamente sviluppata: domina una forma di parentela «universale», quella che si ritrova praticamente in tutti i gruppi di cacciatori raccoglitori contemporanei. Ognuno cioè classifica tutti gli altri come parenti di qualche tipo e non esiste la categoria dei non parenti. Fondamentale, in questo sistema sociale, è la distinzione tra parenti paralleli (figli/e di fratelli/sorelle dello stesso sesso) e parenti incrociati (figli/e di fratelli/sorelle di sesso diverso). La scelta del coniuge è prescritta all’interno dei parenti incrociati. La comunità risulta così divisa in due «metà» (o in più gruppi) che si scambiano regolarmente individui, creando un flusso costante di beni e persone.
Per il 95% della sua storia, l’umanità moderna è vissuta in gruppi di circa 150 individui, ha praticato la condivisione dei beni e ha distinto i parenti in paralleli e incrociati. L’approdo al Neolitico sconvolse questi schemi, avviando la transizione dalla condivisione al possesso e dando vita a quelle che Lévi-Strauss chiamava le «strutture complesse della parentela», in cui non esistono norme rigide per la scelta del coniuge. Le persone con cui si hanno relazioni sono distinte in parenti e non parenti.
Con il libro di Barnard nasce dunque, come l’autore auspica, una nuova disciplina, l’antropologia sociale delle origini umane? La proposta è allettante, anche se lascia spazio a dubbi e perplessità. Fino a che punto si può spingere l’«analogia etnografica», ovvero l’applicazione di conoscenze maturate nel contemporaneo a società preistoriche? È vero, come dice Barnard, che anche la genetica e l’archeologia, applicate alle origini, fanno ampio uso dell’inferenza: ma non si rischia così di cadere nuovamente in forme di antropologia puramente congetturale? E ancora: non c’è il rischio di considerare i cacciatori e raccoglitori contemporanei o le società orticole egualitarie come dei «fossili» viventi? Secondo Barnard è bene non indulgere troppo nel «politicamente corretto»: i cacciatori raccoglitori «sono spesso orgogliosi della profondità storica delle loro radici culturali. Nella loro visione è piuttosto da mettere in dubbio l’umanità di noi uomini agricoli e industrializzati».