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 2014  marzo 02 Domenica calendario

UNO, NESSUNO 136 PESSOA


È l’8 marzo 1914, uno di quei «giorni di luce perfetta» in cui, spazzate dai venti atlantici le caligini del Tago, Lisbona diventa sfolgorante. Le strade, dove s’incrociano persone di differenti etnie e idiomi, profumano della nostalgia di un impero ormai in via di decomposizione. I cargo ormeggiati nel porto sono pronti a scaricare caffè in arrivo dal Brasile, cacao da Sao Tomé, tè da Macao, legname dall’Angola, aromi e spezie da Timor. Nella camera di una casa al numero 24 di Rua Passos Manuel, un uomo si scuote dal torpore della domenica di mezza Quaresima. Scatta in piedi e, ondeggiando in «una specie di estasi» di cui non riesce a «definire la natura», si appoggia su un alto comò, prende dei fogli e si mette alla macchina per scrivere.
Da mesi vorrebbe fare «uno scherzo» a un amico di dispute letterarie inventando «un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, per presentarglielo come se fosse reale», ma l’idea non ha mai preso forma. Fino ad allora. Quando stende di getto «trenta e passa poesie», che firma con il nome di chi era «comparso» in lui, autoconvocandosi da un mondo parallelo: Alberto Caeiro, neopagano e antimetafisico, sentito subito come suo «maestro» e che uccide un anno dopo. Afferra poi altra carta e compone sei poesie che segnano il proprio ritorno in prima persona, una prova a se stesso di esistenza in vita. Non basta: entrato in scena il caposcuola, scopre subito una «inesistente coterie » di discepoli, a ciascuno dei quali assegna biografie, aspetto fisico, temperamenti, nazionalità, tradizioni, filosofie, oroscopi perfino e canoni ed evoluzioni stilistiche diverse. Figure destinate a entrare in rapporto tra loro, a influenzarsi, magari a litigare e che a tratti lui aizza contro di sé. Nascono in successione il classicista Ricardo Reis, medico monarchico trasferito in Brasile; il futurista e nichilista Álvaro de Campos, ingegnere navale laureato a Glasgow; Bernardo Soares, che gli somiglia molto, e, nel tempo, tanti altri. Addirittura 136 coautori, anche femminili. Una vertiginosa «antologia». Anzi, «tutta una letteratura».
«Fu il giorno trionfale della mia vita», racconta un paio di decenni più tardi Fernando Pessoa in una lettera ad Adolfo Casais Monteiro, citatissima perché offre la cifra interpretativa fondamentale per chiunque voglia decodificare il suo polifonico lavoro. Dopo aver spiegato come fin da bambino si sentisse avvicinato da immaginarie proiezioni dell’io con cui dialogava (il Chevalier de Pas che indirizzava «missive sue a me stesso»), riassume la svolta compiutasi nella data magica che segna l’inizio delle moltiplicazioni di sé. Caeiro, Reis e Campos sono degli «eteronimi», cioè letteralmente «altri nomi», «sottopersonalità», compagni spirituali del Pessoa anagrafico, il «Pessoa-lui solo», cioè «l’ortonimo». Un exploit di identità virtuali germinate da un processo di permanente autofecondazione che lo vede affiancato da persone o sub-persone — come il «semieteronimo» Soares — i cui versi, prose, riflessioni filosofiche, bozze di progetti artistici sono rimasti in larga parte sepolti in un baule da biancheria scoperto dopo la sua morte e divenuto un’inesauribile miniera per gli studiosi.
«Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Cos’è questo intervallo che c’è tra me e me?». Il vortice di simulazioni, diffrazioni, spersonalizzazioni (un enigma coerente con l’imperativo che si era dato, «Sii plurale come l’universo», alla stregua di chi, in fuga da se stesso, intenda confondere le tracce) è stato la fortuna e la dannazione di Pessoa, scomparso ad appena 47 anni nel 1935, quand’era conosciuto solo nell’isolato milieu intellettuale del Portogallo per pochi volumetti e per vari testi pubblicati comunque su riviste effimere e a bassa tiratura. Fortuna e dannazione perché il fascino del sistema degli eteronimi, sul quale alcuni hanno creduto di vedere ombre esoteriche se non, più spesso, il peso di una tragica insania, ha fatto lievitare su di lui un’attenzione spesso superficiale. Più concentrata sul mistero di una biografia piuttosto banalizzata che sulle altezze della sua opera frammentata e a più voci. Un po’ l’approccio di uno che, trovandosi davanti il Golconda del surrealista Magritte, il dipinto con il cielo affollato da repliche di uomini identici con abito e cappello nero (guardacaso come vestiva Pessoa), non abbia tutti gli strumenti interpretativi per andare oltre le suggestioni e capire che cosa davvero guarda.
Oggi, a cent’anni dal dia triunfal , evento mitico forse inventato dallo stesso poeta, molto sta cambiando, a Lisbona. C’è una primavera di studi pessoani, a fianco della critica classica una nuova generazione di specialisti internazionali è al lavoro su rigorosi progetti filologici, come quello messo a punto dal colombiano Jerónimo Pizarro e dall’argentino Patricio Ferrari (è loro il più aggiornato censimento degli «autori fittizi» che Pessoa aveva convocato a sé, come un potente sciamano della poesia e della letteratura), assieme all’italiano Antonio Cardiello. Obiettivo comune: correggere equivoci e sviste del passato, così da superare le letture più stereotipate.
Si torna a scavare nei 27.543 documenti del baule, diecimila dei quali ancora inediti. E si scandaglia, dopo la digitalizzazione, anche la biblioteca personale di Pessoa, con 1.300 libri pieni di sottolineature, note volanti, epigrammi, marginalia anch’essi inediti, appuntati in inglese e in portoghese, dato che l’inesauribile flusso creativo di Pessoa si esprimeva in chiave multilingue. Sia quando faceva avanguardia sia quando optava per essere di retroguardia. Insomma, una specie di «secondo baule» che spalanca nuove prospettive d’analisi, a partire proprio dal «dialogo» che il poeta intratteneva con i suoi libri. Tra i quali — per inciso — troviamo tutto Dante e Shakespeare, ma curiosamente non il Pirandello all’epoca già celebre per la scomposizione dell’io di Uno, nessuno, centomila .
Affiorano temi originali e sorprendenti, come la presenza arabo-islamica nel pensiero del grande portoghese. Ci lavora in particolare Fabrizio Boscaglia, torinese, colto saggista e ricercatore presso il centro di Filosofia dell’Università di Lisbona, oltre che organizzatore di visite guidate, «Lisbona con Fernando Pessoa», nei luoghi che recano il sigillo della vita del poeta. Ed è grazie a lui che al «Museo Casa Fernando Pessoa» possiamo sfogliare le pagine di Rubáiyát , del poeta musulmano Omar Khayyam, attivo tra XI e XII secolo. Un volume povero, in brossura, che risulta il più squadernato, studiato e annotato senza ripensamenti dalla febbrile grafia di Pessoa. Il quale, segnala Boscaglia, «incorpora quella radice antica componendo circa 170 quartine sugli stilemi persiani e valorizzando pure in altre pagine la civiltà della tolleranza tra culture: un lascito degli otto secoli di presenza islamica nell’intera penisola iberica, sotto il nome arabo di Al-Andalus...». Un’attenzione che suona attualissima. Basta ripensare al profetico annuncio di Pessoa per cui «è nella proporzione in cui saremo mantenitori dello spirito arabo in Europa che avremo un’individualità a parte».
Secondo una tenace convenzione, i diari e le carte abbandonate nei cassetti sono documenti segreti scritti per diventare pubblici. Un lascito testamentario. Un modo per lanciare messaggi dopo la morte e dunque, in questo caso, l’escamotage di «uno che si è voluto quasi tutto postumo», per stare a un’acuta osservazione di Andrea Zanzotto. Forse è però ingeneroso liquidare come un calcolo deliberato il commovente amletismo di Pessoa, come se non avesse patito quelle continue slogature identitarie. «Chi duole nel mio cuore?», si chiede in un’inedita riga a matita, rivelatrice dei perturbanti fantasmi che lo ossessionano. «Signore, liberami da me», invoca in una preghiera (che per Boscaglia «può essere letta in comparazione con la letteratura mistica, cristiana ma anche sufi») nella quale pare in bilico tra ansia di autosufficienza e ironico innamoramento dei propri alter ego. Un fenomeno che non ha nulla a che fare con i travestimenti rappresentati da apocrifi, pseudonimi, sdoppiamenti di firma frequenti nella letteratura. Ma in fondo è forse l’anonimato dissimulato dietro nomi e maschere ancora coperti, quello che Pessoa cerca sul serio. Anche perché, con una vigorosa sottolineatura, avverte: «Sono chiamato l’Assoluto. Non pronunciarlo, non immaginarlo; pensa e troverai».