Guido Rossi, Il Sole 24 Ore 2/3/2014, 2 marzo 2014
IL DRAGONE ALL’ATTACCO DEL «SERPENTE» VALUTARIO
Le dilaganti povertà e disuguaglianze provocate dalla crisi finanziaria ed economica del 2008, la peggiore in più di settantacinque anni di storia, sono all’origine del riaffacciarsi violento di guerre civili, come la terribile carneficina in Siria e i bagni di sangue sortiti dalla "primavera araba". A queste si aggiungono il fenomeno che va sotto il nome di "guerra al terrorismo", con varie e devastanti conseguenze, oltre alle guerre di dominio antico in giro per il mondo, come quella dilaniante e a noi assai vicina che si sta svolgendo in Ucraina.
I sistemi di governo, dalle democrazie alle autocrazie, si sono via via moltiplicati, soprattutto a partire dalla fine della guerra fredda. Con caratteristiche diverse vecchie e nuove democrazie e vecchi e nuovi regimi autocratici han cercato di confondersi in strutture ibride, ovvero democrazie autoritarie, competitive o controllate. È così che ha più che mai preso piede l’estrema incertezza del diritto, sicché si è prospettata attuale la tesi di Carl Schmitt della difficoltà, o forse dell’impossibilità, di trovare un varco fra la Scilla del legalismo e la Cariddi dello "Stato d’eccezione", fra la sovranità della legge e la sovranità sulla legge.
La vittoria in questa fase storica dell’economia finanziaria sul diritto ha tolto centralità e sovranità alla politica, riversandole sul governo della moneta. Intorno al denaro ruotano gli Stati, le democrazie e le autocrazie, sicché è proprio questo governo della moneta a determinare in larga misura il destino dei popoli nella nuova globalizzazione. È così che le Banche centrali, che di quel governo hanno la leadership, costituiscono ormai il vero e indiscusso potere delle nazioni e mai come in questo periodo le loro decisioni ne hanno condizionato la vita. La rapidità con cui le Banche centrali possono agire sull’andamento delle economie globalizzate, in continua variabilità, è superiore a qualunque politica di Stati democratici o autocratici, in ogni caso allentati dalle difficoltà procedurali e burocratiche sconosciute alle istituzioni monetarie nazionali e internazionali, come è avvenuto finora con l’imposizione di politiche rigorose di bilancio di austerità, rischiosamente deflattive.
In questo quadro complesso e nuovo due significativi avvenimenti si sono appena verificati.
Il primo è stato il tentativo, portato all’estremo, di sganciare completamente la moneta dalla vigilanza e da qualunque influsso politico. Si tratta, come è noto, della moneta virtuale, il Bitcoin, scollegato da qualsivoglia valuta di governo, ma moneta il cui valore, a puri fini speculativi, è stabilito dalla comunità degli utenti in evidente populistico disprezzo verso le istituzioni finanziarie. Ebbene, la principale borsa per gli scambi virtuali del Bitcoin, l’Mt.Gox, venerdì scorso è fallita ed è ricorsa al Tribunale di Tokyo dichiarando una perdita di circa 470 milioni di dollari, che coinvolgono circa centomila clienti, senza purtroppo contare le creazioni di incontrollati e opachi derivati che sul Bitcoin sono stati costruiti. La moneta virtuale voleva vivere e imporsi fuori delle leggi degli Stati ed è stata infine ignominiosamente costretta a ricorrere ad una qualunque legge fallimentare. Insomma, il rapporto moneta-governo può essere anche incestuoso ed equivoco, ma non può venire eliminato.
Il secondo avvenimento, dagli incerti risultati, è l’improvviso cambiamento della politica monetaria della Banca centrale cinese la quale, insieme ai tradizionali consistenti acquisti in dollari, sta spingendo al ribasso lo yuan. Lo scopo dichiarato, oltre quello di raffreddare la speculazione, è di creare via via una moneta fluttuante adatta agli scambi internazionali. Nelle due ultime decadi Cina e Stati Uniti hanno goduto di una quasi perfetta simbiosi, ma questa "Chimerica", come fu chiamata da Ferguson, sembra ora definitivamente scomporsi. Se gli Stati Uniti hanno ancora bisogno che la Cina continui ad acquistare i loro Treasury Bills e compiere altri diversificati investimenti, la Cina è più che mai sospettosa che la politica del "Quantitative easing", cioè dell’immissione di liquidità da parte della Fed, tenda a minacciare la ricchezza cinese e addirittura a metterne in discussione il modello politico, soprattutto per il successo di cui sta godendo nei Paesi emergenti. La fine di Chimerica può preludere a una nuova forma di guerra: la "guerra delle monete", dove il predominio di queste sulla potenza militare può avere devastanti effetti sulla sovranità e sui poteri degli Stati, condannandoli ad insicurezze e devastazioni economiche e politiche.
Il fallimento del dollaro, come moneta di riserva della nuova globalizzazione finanziaria, ha alimentato anche altri tipi di illusioni, come è successo con l’abortito tentativo dei Paesi produttori di petrolio, di sostituire, per il valore del barile la moneta locale al dollaro.
Ma la strada non par certo quella della "guerra delle monete", se è bene di nuovo ricordarlo, come già altra volta ho fatto, che proprio al G20 del 2009, il presidente della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan chiarì che né il dollaro né alcuna altra moneta erano più in grado di costituire la riserva internazionale che garantisse stabilità e crescita economica mondiale. Le monete del singolo Stato sono infatti sempre più destinate a risolvere esclusivamente problemi interni e pertanto incapaci di garantire una liquidità globale. Ma cinque anni fa il dollaro era certamente più forte e lo yuan più debole e forse oggi il presidente della Banca centrale cinese non è più della stessa opinione.
A questo punto solo l’Europa può subito aiutare a fermare la pericolosa "guerra delle monete". Un governo federale europeo, con più ampi poteri garantiti alla Bce da una sempre maggiore integrazione monetaria, fiscale, economica e politica può essere un punto di partenza indiscutibile e forse anche esemplare per un nuovo ordine monetario mondiale. Credo pertanto che le prossime elezioni e, per quel che ci riguarda da vicino, il prossimo semestre italiano, possano presentare un’occasione che non deve essere abbandonata ai margini della storia.