Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore 2/3/2014, 2 marzo 2014
«SE CADE IL DIALOGO IL CONFLITTO DILAGA»
Da capo della Cia e del Pentagono, Leon Panetta ha fatto una lunga esperienza in crisi internazionali. Anche per questo colpisce il paragone che fa nell’intervista esclusiva che ci ha concesso tra l’attuale situazione in Ucraina e le tensioni nazionalistiche che hanno preceduto la Prima Guerra Mondiale.
All’indomani della nascita del 63esimo governo dalla nascita della Repubblica italiana, in un momento in cui alle tensioni socio-economiche domestiche si sommano quelle geo-strategiche Il Sole 24 Ore si è rivolto a questo veterano della politica internazionale per parlare delle sfide che Matteo Renzi sarà chiamato ad affrontare.
Avendo lasciato il Pentagono esattamente un anno fa, Leon Panetta è infatti ora in grado di esprimersi liberamente nella sua veste di direttore del Leon & Sylvia Panetta Institute for Public Policy, il think tank fondato con la moglie.
Quanto la preoccupa la situazione in Ucraina?
Quest’anno cade il centesimo anniversario dell’inizio della Prima guerra mondiale e ora più che mai è importante ricordare gli errori che hanno condotto alla Grande Guerra. Perché guardando al mondo di oggi, dal terrorismo alle rivoluzioni nazionali, si nota la presenza di molti degli stessi elementi che possono far detonare conflitti internazionali. La comunità delle nazioni deve ora fare il massimo degli sforzi diplomatici per evitare che la situazione in Ucraina porti a uno scontro militare tra nazioni.
Il problema è che l’Ucraina è profondamente divisa in due.
Certo, ma ogni Paese ha le sue divisioni interne. È vero negli Usa, ed è vero in Italia. Diplomazia esterna a parte, occorre trovare il modo per superare dissidi e contrasti nel nome del bene e dell’unità nazionale. Ed è quello che penso l’Ucraina debba fare. Ma vedremo nei prossimi mesi se gli ucraini hanno veramente la volontà di mantenere la propria unità nazionale e soprattutto la riterranno più importante delle loro divisioni.
Veniamo a un’area geografica più prossima all’Italia, alla Libia. Se lei fosse ministero della Difesa a Roma quanto preoccupato sarebbe dell’attuale situazione in quel Paese?
Siamo tutti molto preoccupati per l’instabilità in Libia.
Vista l’attuale situazione c’è chi si domanda se non era meglio Gheddafi. Almeno avevamo imparato ad averci a che fare.
Capisco, ma penso che la responsabilità di tutti sia quella di aiutare la Libia a muoversi verso una maggiore stabilità e soprattutto una migliore capacità governativa. La primavera araba ha portato grandi cambiamenti nel giro di poco tempo e non c’è dubbio che i risultati sono stati modesti, ma non possiamo permetterci di rimanere a guardare.
Pensa che ci sia il rischio di avere una nuova Somalia molto più vicina all’Italia?
Sono sicuramente preoccupato da quanto emerge nei rapporti di intelligence che segnalano un’ascesa di al-Qaida. Sebbene la sua leadership in Pakistan sia stata decimata, al-Qaida ha nuovi elementi che si stanno affermando in Iraq, Somalia, Siria, Yemen, Mali e in Libia. E questo è certamente motivo di preoccupazione. Perché non possiamo permettere ad al-Qaida di stabilire una base operativa dalla quale attaccare l’Europa o gli Stati Uniti.
La domanda che gli italiani rivolgono regolarmente a un corrispondente negli Usa è: cosa pensano gli Stati Uniti di noi? Può rispondere lei?
L’Italia è parte dello spirito degli Usa e per questo la consideriamo solo un alleato importante ma parte della nostra famiglia.
Ma da alleato quale è stata la sua maggiore preoccupazione, o frustrazione, per come vanno le cose da noi?
Premesso che ho sempre sentito forte affinità e forte legame con il Paese dei miei genitori - che ho sangue italiano nelle vene - devo dire che la preoccupazione principale è sempre quella che l’Italia abbia un governo stabile e una leadership politica in grado di guidarla in un mondo molto incerto.
Come ha accolto l’avvento di Matteo Renzi a primo ministro?
Ogni volta che emerge un leader giovane, con idee chiare su quello che bisogna fare, non ci si può che rallegrare. Ma il vero test non sarà ovviamente sulle idee bensì sui fatti.
Un suo consiglio?
Al nuovo primo ministro direi di spiegare bene agli italiani che cosa vuole fare, di essere trasparente sui suoi obiettivi. E soprattutto di non perdersi o rimanere chiuso nelle stanze del governo, cosa che potrebbe consumarlo ed erodere il suo potere.
Renzi vuole cambiare il Paese. Se lei fosse suo cugino calabrese Mimmo Panetta dove gli chiederebbe di cominciare?
Il primo ministro ha detto di voler riformare il sistema politico per promuovere maggiore stabilità, e io penso che quella debba essere la priorità. Non sarà facile, me ne rendo conto, ma è un leader giovane, ha energia e vision, e spero capisca che la leadership richiede coraggio e volontà di assumersi dei rischi per fare quello che serve e garantire un futuro all’Italia. Anche perché dovrà affrontare sfide economiche non da poco... C’è stato un tempo in cui si è temuto che l’Italia potesse fare la fine di Grecia o Spagna. L’economia italiana ha quello che serve per riprendersi, ma per assicurare la solidità della ripresa occorrono disciplina e piani di spesa pubblica efficaci ed efficienti.
La Calabria, la regione di suo padre, è ritenuta da molti esperti quella in cui la criminalità organizzata è più forte e radicata. È un problema anche per gli Usa?
Nelle mie vesti governative, e quindi dal punto di vista della nostra sicurezza nazionale, non me ne sono mai occupato. Ma come figlio di calabresi, ovviamente, sono sempre stato preoccupato e posso dire solo che spero che l’Italia trovi il coraggio di affrontare la questione.
Con la crisi che si trascina, in Italia, come nel resto dell’Europa, c’è chi sostiene che sia meglio lasciare l’euro e riprendersi la sovranità ceduta a Bruxelles e Francoforte. Lei pensa che possa accadere?
Non credo. Penso che l’Europa sia ormai troppo avanti nel processo di unificazione. E ritengo che tornare indietro non sarebbe solo difficile ma sbagliato. Quello che serve ora è che tutti lavorino insieme. Capisco le preoccupazioni riguardo decisioni valutarie prese a livello sovranazionale, ma penso che un’Europa unita in un’unica famiglia di nazioni rappresenti una potenza economica che potrà giocare un ruolo importante nel XXI secolo.
C’è poi anche chi ritiene che l’Italia difetta in autodisciplina e che per questo la supervisione di Francoforte e Bruxelles sia necessaria.
È sicuramente preferibile per un Paese autodisciplinarsi e farsi carico delle proprie responsabilità e dei propri obblighi per proteggere l’economia senza dipendere dall’intervento esterno. Ma se manca la leadership o la capacità per farlo, possono subentrare altri. Sarebbe preferibile evitarlo, ma è la conseguenza dell’inazione.
Ha mai provato l’impressione che essere figlio di Carmelo e Carmelina e chiamarsi Panetta, a Washington o alla Casa Bianca fosse uno svantaggio?
Ho spesso chiesto ai miei genitori perché avessero lasciato la loro famiglia e il loro Paese per venire qui. Mio padre mi ha spiegato che pensava di poter offrire una vita migliore ai propri figli. E io ho avuto l’opportunità di realizzare quel suo sogno in Congresso, alla Casa Bianca, al Governo. Questa è l’America, e non ho mai pensato che essere italo-americano fosse uno svantaggio.
Dalla prospettiva italiana è però vero il contrario: l’Italia ha perso un potenziale ministro della Difesa perché non è stata in grado di offrire ai suoi genitori quello che volevano. Dati recentissimi dimostrano che oggi è in corso una nuova fuga all’estero dei giovani italiani. Verso Gran Bretagna, Germania e altri Paesi più dinamici.
Mi dispiace sia così, e se avessi l’opportunità di rivolgermi ai giovani italiani direi questo: se pensate che le cose non vanno bene adesso, sappiate che saranno sicuramente peggiori se non vi impegnate a migliorarle voi, se vi arrendete o ritenete che il Paese sia senza speranza. Questo è piuttosto il momento in cui l’Italia ha bisogno della forza dei suoi giovani. C’è bisogno che capiscano che, se rimangono e si impegnano nella realizzazione dei cambiamenti necessari, l’Italia può non solo trovare stabilità ma può essere un grande Paese.