Felix Martin, Il Sole 24 Ore 2/3/2014, 2 marzo 2014
ECCO L’UOMO CHE CAPÌ IL DENARO
Undici anni dopo la fondazione della Banca d’Inghilterra e un anno dopo la morte di Locke, Bernard de Mandeville, medico olandese trasferitosi a Londra nel 1699, pubblicò un poema satirico intitolato L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti. Esso descriveva «un grande alveare affollato di api, / che viveva nel lusso e negli agi», e spiegava che all’origine della sua prosperità non vi era altro che gli appetiti venali dei suoi abitanti. Gli avvocati fomentano dispute per avere incarichi; i funzionari statali intascano tangenti; i medici badano alle parcelle più che al benessere dei pazienti e i soldati combattono per denaro e titoli anziché per l’amore del Re e della Patria; ma il risultato è una comunità prospera e vigorosa. Poi arriva il disastro: le api si mettono in testa di doversi convertire alla virtù. Vengono sconfessate l’avidità, l’ambizione e la disonestà. Politici e generali vengono accusati di essere schiavi dell’interesse personale anziché servi della causa nazionale. E il risultato ironico di questa conversione è che tutto cessa di funzionare: l’economia si affloscia, la popolazione cala e le api si riducono a un’esistenza primitiva nel cavo di un albero. La morale del poema è che «soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto / un grande alveare. / Godere i piaceri del mondo, frode, lusso e superbia debbono esistere / fino a quando ne cogliamo i benefici».
Il poemetto burlesco di Mandeville mirava a respingere le critiche dei Tory alle campagne militari in corso sul Continente e soprattutto al loro protagonista, John Churchill duca di Marlborough. I Tory non gradivano che Marlborough e i suoi sostenitori Whig fossero divenuti ricchi e potenti grazie alla lunga guerra. Sospettavano da tempo che il nuovo sistema di finanza pubblica e in particolare la sua innovazione principale, la Banca d’Inghilterra, fossero poco meno che una macchina corrotta architettata dagli interessi monetari Whig e dai loro scagnozzi come Marlborough per puro vantaggio personale. Con la parabola delle api lascive, Mandeville intendeva mostrare che la venalità in politica, in affari e in guerra era il prezzo da pagare per un’economia abbastanza florida e un ordinamento politico abbastanza forte da tener testa ai propri nemici. L’epoca della cavalleria, ammoniva, era finita da un pezzo. Uomini come Marlborough non avrebbero combattuto solo per la gloria, ed era importante averli come alleati anziché come avversari. L’alternativa puritana sostenuta dai critici del duca avrebbe lasciato l’Inghilterra debilitata, povera e vulnerabile alle aggressioni. Tuttavia Mandeville si rese conto ben presto che questo effimero spunto polemico conteneva i germi di un’idea più profonda e universale. Il caso particolare del rapace Marlborough si poteva generalizzare. Non solo alcune, ma tutte le azioni superficialmente malvage tendono in realtà, per una logica perversa, al bene.
Nel 1714 Mandeville ripubblicò il suo poema in un’edizione accresciuta. Il titolo di questa nuova versione, La favola delle api, ovvero vizi privati e pubbliche virtù, andava dritta a quel paradossale punto. L’esistenza stessa della comunità umana non si fonda «né sulle qualità amichevoli e dai gentili affetti che sono naturali all’uomo, né sulle reali virtù che egli è capace di acquisire per mezzo della ragione e dell’abnegazione». Essa dipende invece da «ciò che chiamiamo il male in questo mondo, tanto morale quanto naturale». È all’incoraggiamento del male che dobbiamo «la vera origine di tutte le arti e le scienze, e non appena il male cessa, la società ne è guastata, se non del tutto dissolta». Il modo migliore, anzi l’unico, per conseguire un esito ottimale a livello della comunità nel suo complesso è quello d’incoraggiare l’ambizione, l’avarizia e l’egoismo schietto a livello individuale. Il poeta e polemista satirico era diventato un serio economista politico. La tesi di Mandeville suscitò reazioni sdegnate: filosofi e teologi si affrettarono a respingere la sua proposta abominevole e i suoi saggi e poemi furono messi all’indice.
Ma con il progressivo slancio della rivoluzione finanziaria inaugurata dalla fondazione della Banca, divenne chiaro che la tesi paradossale di Mandeville aveva colto lo spirito dei tempi. Il denaro era ovunque. Ogni anno venivano fondate nuove società. Il mondo plasmato da questa rivoluzione imprenditoriale e finanziaria invocava a gran voce una spiegazione e una giustificazione, e la scandalosa ipotesi di Mandeville sembrava fornire entrambe. Quando fu raccolta da uno degli astri nascenti dell’Illuminismo, lo scozzese Adam Smith, essa divenne la base di una matura teoria della società monetaria che è sopravvissuta fino ai giorni nostri.
Nella sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Adam Smith formulava la prima teoria sistematica che legava il comportamento individuale all’organizzazione dell’economia, e presentava la prima sintesi valida delle idee dei pensatori precedenti sul modo in cui la rivoluzione finanziaria aveva trasformato la società tradizionale. Con la loro crescita, sosteneva Smith, il commercio e denaro «introdussero gradualmente l’ordine e il buon governo e con essi la libertà e la sicurezza individuale». Fu Smith a riconoscere l’ironia storica dell’accumulo e successivo sperpero di quel capitale politico. I signori feudali che erano stati i primi beneficiari della società tradizionale erano stati stregati dalla magia del denaro. L’amore per il lusso li aveva portati a incoraggiare la monetizzazione delle loro rendite feudali: «così, per la soddisfazione della più infantile, più meschina e sordida delle vanità, essi gradualmente barattarono tutto il loro potere e la loro autorità».
Smith era pervenuto a un risultato senza precedenti nella storia del pensiero monetario: una giustificazione esauriente della società monetaria in termini sia economici sia politici.
Era un accordo storico sul piano intellettuale e morale quanto lo era stato il Grande Accordo Monetario sul piano pratico. I fondatori della Banca d’Inghilterra credevano che il matrimonio del settore bancario privato con la moneta sovrana avesse scatenato la più trascinante forza mai vista per il progresso economico e sociale.
Ora gli economisti davano loro ragione. E il padre del liberalismo politico in persona aveva decretato che, a patto di attenersi alla concezione corretta del denaro, e di non deviare dallo standard naturale e immutabile del valore economico che essa comportava, tutto era in perfetto accordo con il nuovo Vangelo del governo costituzionale. Il denaro aveva raggiunto la sua apoteosi.