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 2014  marzo 02 Domenica calendario

REPORTAGE IN FABBRICA


«Chiedete a chiunque di provare a tratteggiare i contorni dell’Italia industriale e vi troverete dinanzi all’afasia, tanto il compito potrà riuscire impossibile, persino a chi si è applicato anni e anni all’osservazione e allo studio della produzione». Così, nel suo ultimo saggio Produzione intelligente, Giuseppe Berta sintetizza bene il senso di frustrazione che, negli ultimi quindici anni, ha colto quanti – da accademici o da cronisti economici, da consulenti d’azienda o da economisti teorici – hanno tentato di delineare l’essenza del mutamento italiano. Una frustrazione, però, eccitante. Frustrazione perché la complessità della nostra transizione – con lo schianto di buona parte dell’economia pubblica, la crisi del paradigma della grande impresa privata e l’emergere di una élite produttiva perfettamente a suo agio sui mercati globali – è difficile da "maneggiare" con gli strumenti più ortodossi dell’analisi economica, da mainstream per intenderci, e soprattutto richiede un costante (e faticoso) aggiornamento dei risultati. Eccitante perché proprio l’inadeguatezza dei codici da Fondo Monetario Internazionale – sempre a rischio di ossificazione – rappresenta una sfida ermeneutica quotidiana interessante negli esiti e utile sotto il profilo del metodo. Proprio il metodo, in questo saggio, risulta accattivante e convincente. Nel senso che l’intelaiatura concettuale – dichiarata – è rappresentata da due pensatori classici: l’Alfred Marshall dei Principles of Economics e il Karl Marx di Macchine e grande industria, il tredicesimo capitolo del primo libro del Capitale. Entrambi sono accomunati dalla centralità della fabbrica. In Marx essa è «la leva da cui muove la catena del valore, all’interno di una rappresentazione dello sviluppo che è insieme dinamica e concettuale. È il teatro di un confronto incessante, che non si estingue mai, una forza organizzatrice e impersonale costantemente protesa alla ricerca dei modi per estrarre valore dal lavoro vivo (i lavoratori), mediante lo sviluppo di un sistema di macchine che culmina nella creazione della fabbrica automatica». Invece, Marshall è attento al rapporto fra l’organizzazione produttiva e l’ambiente che le fa da involucro: «A farcela saranno soltanto le imprese che passeranno con successo attraverso la prova selettiva della lotta per l’esistenza». Per superarla dovranno dimostrare di saper attingere alle risorse dell’ambiente che le circonda: «La legge della sopravvivenza dei più adatti – scrive Marshall nei Principles – afferma che tendono a sopravvivere quegli organismi che sono i meglio idonei a utilizzare l’ambiente per i loro scopi». Perché la scelta di Marshall e di Marx? Perché per entrambi la fabbrica è appunto il luogo elettivo di sperimentazione di una economia della conoscenza capace di rimodellare incessantemente se stessa. Una idea che si attaglia perfettamente all’Italia di oggi, il cui paesaggio industriale costituisce una delle ossature identitarie ed economiche, culturali e sociali di un Paese sempre sospeso fra originalità e marginalità, ricchezza e povertà, staticità e dinamismo. Perché, questo, sono oggi le fabbriche, vecchie e nuove: i luoghi in cui accadono le cose. Dunque, con un box of tools formato dai classici per cui l’osservazione diretta sul campo contava non poco (Manchester per Marx, Sheffield per Marshall), Berta dà vita a un gustoso reportage in quel che resta della grande impresa italiana e nei laboratori del nuovo capitalismo a prato basso, che prova ad agganciarsi alle catene internazionali del valore attraverso, appunto, la produzione intelligente. Ecco che Berta si misura con la realtà e la suggestione, la stretta attualità e la storia. Una delle tappe di questo viaggio è Pomigliano, dove la Fiat – secondo il principio ordinatore del world class manufacturing – ha trasformato in un plant modello una delle fabbriche che meglio rappresentavano il disordine e il disfacimento di una parte dell’economia di matrice Iri. Contraltare di Pomigliano è Taranto. Nell’Italsider pubblica vigeva il caos: negli anni Ottanta vi era perfino insediata la gang criminale di Antonio Modeo, detto il Messicano. Con la privatizzazione, nel 1995 arrivano i Riva, che conducono l’acciaieria all’eccellenza produttiva, ma senza risolvere gli enormi problemi ambientali. Diversa la sorte di Dalmine, confluita nel 1996 nella Techint della famiglia Rocca. «Nella tersa giornata di fine gennaio in cui la visito – scrive Berta – spiccano i rilievi degli edifici e delle strutture produttive in un alternarsi di forme che corrispondono a una stratificazione di epoche, ognuna delle quali ha recato il proprio contributo a scolpire il profilo di una fabbrica in cui passato e presente si mescolano senza interruzioni visibili». E che mostrano come l’Italia sia in grado di conservare un presidio nelle lavorazioni più complesse, come i tubi sottili per le pipelines oceaniche. Il mosaico si completa con la tessera della ProTocuBe, una microimpresa di Torino specializzata nella stampa tridimensionale. Berta non accetta la dimensione retorica e mitizzante che avvolge le start-up. Anche se si chiede se questa specifica attività possa o no dischiudere la porta per una nuova rivoluzione industriale. Ma, soprattutto, in questo saggio che completa un itinerario personale di ricerca scandito nel 2001 da L’Italia delle fabbriche (Il Mulino, nuova edizione nel 2013) e nel 2004 da Metamorfosi. L’industria italiana fra declino e trasformazione (Egea), adopera il particolare (dell’impresa) per spiegare – o, meglio per raccontare, per fare balenare agli occhi del lettore – il generale (dell’economia italiana): «Quando si varca la sua soglia – scrive a proposito di ProTocuBe – , si entra in un ambiente che sta a metà fra la società di servizi, con alcune persone che lavorano allo schermo del computer, e il laboratorio artigiano, con le stampanti, un piccolo magazzino, i pacchi accatastati e quel po’ di disordine che è inseparabile da un lavoro eterogeneo, compiuto da un gruppetto di lavoratori professionali con poco spazio a disposizione». Sembra proprio il ritratto di interni di un Paese, il nostro, che deve ancora decidere dove andare.