Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 2/3/2014, 2 marzo 2014
MI CHIAMO VERDONE E SONO UN ANTIDEPRESSIVO IN CARNE E OSSA
[Carlo Verdone]
Tetti, nuvole e gabbiani. Dal nido di Carlo, Roma è un dipinto all’orizzonte. Con i rumori attutiti, le voci lontane e i suoi 63 anni attraversati con la curiosità dei diciotto, Verdone abbraccia i bilanci con il pudore di chi teme di domandarsi troppo. Tra poche ore, circondato da vinili, chitarre, manifesti e fotografie, il figlio di Mario illuminerà in solitudine l’oscura camera dei desideri e del tempo trascorso.
All’alba dei Settanta, in sella a una Lambretta, parcheggiava l’esistenza a due passi da un’umida cantina in cui si recitava Bergman. Stanotte, quando il sole andrà a dormire, tra sussurri e grida, vanità e affanni, aspettative, sogni e bellezze in attesa di trasformarsi in grandi classici, Verdone osserverà il palcoscenico dell’Oscar con la rodata armatura del disincanto. Avrebbe potuto essere a Los Angeles per festeggiare: “Nicola Giuliano e Paolo Sorrentino, gentili, mi avevano invitato”, ma ha preferito il divano del suo rifugio a due passi dal Gianicolo, nella stessa strada in cui Nanni Moretti sognava di abitare trattando con agenti immobiliari abituati a confondere il denaro con la storia: “Ho chiesto quanto costava e mi hanno risposto dieci milioni a metro quadro. Il Gianicolo ha vie storiche, ha detto il proprietario, qui Garibaldi ha fatto la resistenza”.
Se la valigia dell’attore è rimasta nell’angolo, giura Verdone, merito o colpa confinano con il pudore: “Mi sarei sentito un intruso, un presenzialista, un personaggio del film di Sorrentino. Mi sono immaginato i giornalisti intenti a chiedere ‘Come ci si sente? Cosa si prova?’ e ho deciso di incrociare le dita da qui. La scena deve appartenere al produttore e al regista”. Da omologo del collega napoletano, Carlo ha messo in fila 24 titoli. L’u l-timo Sotto una buona stella, commedia familiare ritmata da strappi, cesure, abbandoni e nuovi inizi, si avvia a superare i dieci milioni di euro sedando le ansie in cui Verdone vede un riflesso della giovinezza: “La verità è che dal 1980 non è cambiato nulla, ogni volta mi sembra di tornare agli inizi, a Un Sacco Bello, alla prima telefonata di Leone: “Chiamame Sergio. Puoi venì domani pomeriggio alle sei che parlamo n’attimo? ”. La verità è che non ho mai barato. Sono una persona seria e credo di aver fatto sempre le cose seriamente.
Per un maestro di comicità sembra quasi una contraddizione.
Sono felice di quello che ho avuto, di quello che ho dato, del percorso che ho fatto. Poi osservando le cose con le lenti della maturità, in controluce, vedi ovviamente anche molto altro.
E cosa vede?
Tutte le piccole cose della vita privata che ho perso per strada. Un viaggettino in macchina, un amico da andare a trovare, una gita al mare. Stronzate magari, ma di quelle stronzate che per me sono estremamente importanti.
L’ombra del rimpianto?
Sono un privilegiato e non mi voglio lamentare, ma non creda che il mio lavoro sia indolore. Per queste immersioni totalizzanti che chiamiamo cinema, per quest’anno e mezzo al chiodo in cui pulsa un’ossessione, esiste sempre un conto. Ti viene portato sotto il naso. E devi pagarlo tu. Immagini una storia, la scrivi, scegli gli attori giusti, giri, aspetti l’esito dell’opera.
Come vive l’attesa?
Male quando non malissimo. Ogni tanto mi aiuto con una pasticchetta, con un tranquillante. Negli ultimi giorni l’attività onirica mi ha riportato alla casa sopra i portici, a mia madre, a mio padre che batte i tasti della lettera 22 nel suo studio, protetto da una porta chiusa. Quando attraverso un tormento, almeno nei sogni, loro ci sono sempre.
Può tranquillizzarsi, anche il suo ultimo film è nato e ha vissuto “sotto una buona stella”.
Anche se il trailer dà l’idea di un film molto leggero, e pur essendo una commedia, ha tanti spunti di riflessione, c’è calore, affetto, verità. È un film molto semplice e anche un inno alla solidarietà. Personalmente so’ stravolto, una promozione folle, mai fatta prima. Ho viaggiato ovunque da Mestre a Caltanissetta, non ce la faccio più. Ora che mi sono fermato posso concedermi il lusso di riflettere. Per l’autore, il meccanismo d’azione che si instaura con il pubblico, confina con il mistero. Ma di una cosa sono certo. Anche i personaggi più lontani da me hanno sempre un frammento della mia visione del mondo. La solitudine, la mitomania, le fragilità, l’essere succubi del mondo femminile. Una costante del mio cinema.
Le donne padrone dei destini altrui marciano anche nel suo ultimo film.
E vai a capire perché poi, ci vorrebbe lo psicanalista. Forse mettere le donne al centro dei miei lavori non è altro che l’implicito riconoscimento della loro superiorità oppure le racconto da anni soltanto perché nella vita ho più amiche che amici. Dell’universo femminile sono un discreto psicologo.
E cosa ha capito in questi anni?
Io non so’ Alberoni, so’ Verdone. Però se me lo chiede le rispondo che viste dalla nostra prospettiva le donne sono un gran casino e vivono in un pianeta estremamente complesso. Attraversano una gamma di stati d’animo a noi sconosciuti. Sono ipersensibili, se si arrabbiano sono più aggressive dei maschi e però al tempo stesso, se vogliono amare sono più brave di noi. Per me le donne sono il vero grande stupore della vita.
Anche Paola Cortellesi o Tea Falco?
Paola è l’elemento rassicurante, Tea l’installazione da Biennale. Sono due ragazze fantastiche, due persone vere. Due artiste. Tra un’incertezza, un dolore e una speranza sanno come prendere l’iniziativa. Conosco quel tipo di forza, ce l’aveva anche mia madre. Ai tempi del mio primo spettacolo teatrale mi ero chiuso in camera e non volevo più uscire.
Come la convinse?
In tre parole: “Carlo, non fare il fregnone! Vai a recitare! Un giorno mi ringrazierai”. E la porta si aprì.
Lei il cinema l’aveva già visto da piccolo.
Dietro le quinte di Cinecittà, con mio padre. Dietro ogni viale, un set, una faccia, un microcosmo di voci in cui l’artigiano dava la destra all’artista. Il codice sacro delle maestranze. Le battute tra macchinisti, gruppisti e comparse . Gli ordini secchi di un set, quella febbre che colpisce chi per poco più di due mesi forma una famiglia provvisoria in cui aiutarsi non è facoltativo. Certi dialoghi fantastici li trascrivevo mentalmente. Mi sono serviti.
Avrebbe mai pensato di ornare con l’osservazione ventiquattro singoli quadri?
Speravo, ma non potevo sapere. In quasi tutti i miei film c’è un’umanità fragile e bisognosa d’affetto. Un piccolo uomo in balia di eventi che lo sovrastano. Un cialtrone che si racconta per quel che non è, lo sfondone linguistico culturale, come in Borotalco: “Devo andare a Parigi per lavoro, al Louvre si mangia molto bene”.
Lei ha fatto ridere gli italiani riproponendone con tenerezza i difetti.
Se guardo la realtà mi dico “C’è davvero da ridere?” Poi mi rispondo sempre di sì. Altrimenti la commedia finisce. Per alternare gli elementi ilari e drammatici ci vuole equilibrio, bisogna essere capaci di non prendersi troppo sul serio. Ci vuole tempo, ma il tempo sa restituire. E anche se io non sono esattamente la persona che porto in scena nei miei film, per le persone rappresento quella cosa lì. Le racconto un bell’inizio di soggetto cinematografico.
Inventato?
Vero al cento per cento. Una volta al mese mi chiamano in case che non conosco per portare conforto a un caso disperato, a un malato terminale, a qualcuno che sta soffrendo intensamente. Il dolore è democratico. Frequento proletari e nobili, ceto medio. “Mi faceva piacere conoscerla, volevo ringraziarla per tutta l’allegria che mi ha dato” mi dicono. Io mi siedo, ascolto le loro storie e anche se esco con il cuore a pezzi, so di essere utile a qualcosa. So’ una specie di antidepressivo in carne e ossa. Forse il più bel premio della mia carriera.
Somiglia a un atto d’a m o re .
L’amore è una cosa strana. Un’alchimia per coraggiosi.
Si innamora spesso?
Mi càpita. Ma non ho mai creduto che ci si innamori del proprio alter ego. Per funzionare bisogna essere diversi, ma sapersi stupire vicendevolmente, saper ridere insieme. L’amore è una questione un po’ complessa.
E per citarla, è eterno finché dura.
Se nell’ironia per il dettaglio, magicamente ci si trova sulla stessa rotta, hai trovato una complicità straordinaria. Non è una cosetta facilissima, ma se succede hai trovato l’amore. Hai fatto bingo.
Si ricorda di quando per trovarne un simulacro emigravate a est?
Stretti nella 127, con i regalini sul retro e la sensazione di andare verso la cortina di ferro lasciandoci dietro le spalle difetti, complessi e paure. Anni di politicizzazione del sentimento avevano lasciato nell’aria una certa voglia di evasione. Eravamo un po’ repressi. Comunque con tre amici puntammo verso la Polonia e ci ritrovammo nell’ex Ddr .
Sbagliaste strada?
Completamente. Ma poi in Polonia arrivammo comunque e lì ritrovammo Little Italy. Una serie di disgraziati come noi, a caccia di un’avventura improbabile. Dialetti del nord. Dialetti del sud. Piccole miserie, millanterie, esibizionismi ingenui. Io mi fidanzai con una pallavolista, dormii con lei in palestra, con il timore di essere scoperto dai parenti, dall’allenatore, dalle compagne di squadra, dagli alti gradi del Kgb. Lei era gigantesca, mi dava una ventina di centrimetri buoni, Anna si chiamava. Ma a est ero già stato, fin dai primi anni 70. Avevo chiesto a mio padre il permesso di andare a Praga, a casa mia madre improvvisava sempre il teatro delle marionette, avevo conosciuto Maria Signorelli, un’autorità nel campo. In Cecoslovacchia c’era la scuola in tema più famosa d’Europa. Mi imbarcai. E nonostante la paura dell’aereo, partii.
Come andò a Praga?
Sfiorai l’arresto per un soffio. In città era arrivato Breznev e guardando la processione dei carri armati fuori dalla finestra del mio albergo, poco prima di tornare a Roma, mi venne un’idea assurda.
Quale?
Staccare una bandiera comunista dal cornicione, ripiegarla in valigia, rapire un ricordo, fregarmi un souvenir. Quindi mi sporgo, la afferro, la metto in valigia e mi sento anche un poco soddisfatto. Poi accade l’imponderabile.
Cosa?
Bussano alla porta. Apro. Davanti a me si para una bestia in divisa, con la faccia cattiva, incazzato nero. In un inglese metallico mi ordina di aprire la valigia, prende la bandiera, la srotola, mi guarda con disprezzo e mi fa cenno di seguirlo. Una strizza fottuta, glielo giuro.
Ci volle molto per farsi liberare?
Dovetti indossare una sincera prostrazione. Recitare un sincero pentimento. Per quell’ufficiale, roba di servizi segreti o giù di lì, il “ratto” della bandiera equivaleva ad aver bestemmiato la madonna. Provo a improvvisare un sincero apprezzamento per l’Unione Sovietica e per poco non peggioro la situazione. Mi sbattono su un Tupolev. Erano malandati già allora. Di mio non ci sarei salito. Ma non avevo scelta. Tornai a Roma con il profilo emaciato del sopravvissuto per miracolo. Adesso farò altri viaggi. Vado a insegnare un paio di mesi in America. Mi hanno chiamato dall’Università di Bloomington, in Indiana, per farmi un regolare contratto e raccontare il senso del mio lavoro. Hanno scelto gli studenti che studiano anche l’italiano, una cosa bellissima.
Lei partì dal Centro sperimentale di cinematografia. Il cerchio si chiude.
In un certo senso sì. Studiai nel biennio ’72-’74. Dominava la politica, avevo Rossellini come insegnante.
Raccontò di come i tempi fossero cambiati e il maestro non se ne fosse reso conto.
Dominavano i gruppettari, ma Rossellini tendeva a distinguere i campi d’azione. Il cinema era una cosa. La politica un’altra. Aveva ragione ma affermarlo in quel contesto era quasi eversivo. Un giorno, nel mezzo di una lezione su una cinepresa, uno di Lotta Continua per esprimere disprezzo e distanza dai vecchi metodi di insegnamento, si girò di spalle verso la cattedra e diede libero sfogo a un peto. Rossellini non si ribellò. Sibilò un “la lezione è finita” e prese la via d’uscita con percepibile tristezza.
Erano gli anni del Filmstudio.
Ci passavo i pomeriggi, d’inverno e d’estate. animando discussioni infinite su un piano sequenza, un silenzio, un mazzo di fiori ripreso per minuti da un punto fisso. Anche per questo andare in America mi rende felice. In un anno di grandi svolte, piccole rivoluzioni, traguardi raggiunti il viaggio è una maniera di guardarmi indietro e scoprire che tutto sommato posso camminare a testa alta.
Allora auguri professor Verdone. Docente di cinema come suo padre Mario. A cui anno dopo anno somiglia sempre di più.
Con gli occhiali e la stempiatura francamente sono quasi identico. E mi fa piacere. Da quando si è sparsa la voce di Bloomington, comunque, gli istituti di cultura italiani all’estero mi hanno richiesto ovunque. Miami, Chicago, Detroit. Va a fini’ che mi ci devo trasferi’ negli Stati Uniti. Lei che dice? Nasce sotto una buona stella questa cosa qui?