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 2014  marzo 04 Martedì calendario

QUANTE MANI SULLA STATUETTA


HA VINTO il cinema italiano o ha vinto Paolo Sorrentino? Nel giusto tripudio bisogna ricordare prima di tutto che tra i film suoi rivali, venuti dal Belgio, dalla Danimarca, dalla Cambogia e dalla Palestina, tutti molto belli, quello italiano era davvero il più bello.
Non perché tricolore, ma perché immaginato, voluto, scritto, diretto, da un giovane uomo colto, geniale, di grande capacità visionaria, napoletano e romano, in grado di uscire dal provincialismo di cui è affetto il nostro cinema, di raccontare i nostri guasti e la nostra disperazione, le nostre bellezze e le nostre brutture, con lo sguardo e il talento di chi sa incantare e rendere comprensibile oltre i nostri angusti confini, la confusione che preme sul nostro Paese: anche citando, nel momento dell’Oscar, come suoi “maestri”, Fellini e Scorsese, i Talking Heads e Maradona, le figure colte e popolari che lui condivide col mondo.
Se per 15 anni, dopo ben tre Oscar a Roberto Benigni e al suo La vita è bella, il cinema italiano, per decenni il più importante e venerato, non è più nemmeno riuscito a entrare nella rosa dei 5 finalisti (tranne La bestia nel cuore di Cristina Comencini, nel 2006), è dipeso spesso dal fatto che la commissione italiana sceglieva per gli Oscar un film per ragioni diverse dal suo valore; troppo mestamente italiano, poco stimolante per gli stranieri, mal distribuito all’estero, o anche davvero di gran lunga inferiore agli altri venuti dall’Iran o dalla Francia o dalla Russia.
Di questo Oscar molto sorrentiniano, si sta impossessando tutta l’Italia, come fosse una benedizione, arrivata a promuovere e incoraggiare l’ancora nebuloso cambiamento in atto nel Paese: e il premiato, conoscendo l’abitudine italiana di arrogarsi patriotticamente i meriti di altri, con la sua ironica flemma si è detto speranzoso che la sua vittoria e il nuovo governo «di cui non sappiamo ancora nulla della forza e del valore, marcino insieme: noi stiamo marciando bene, vediamo come marciano loro». Una specie di fraterno e dubbioso avvertimento, cui è ovviamente seguito una pioggia benedicente di twitter governativi, quelli del premier Renzi all’alba, inneggianti «all’iniezione di fiducia» che l’Oscar potrebbe portare al Paese e magari anche a lui stesso, mentre Franceschini, appena insediato alla scrivania dei Beni culturali, argomento tra i più trascurati del Paese, ha twittato calorose felicitazioni.
La gente del cinema poi, ancora frastornata per un premio cui si era disabituata, si è sentita tutta premiata e riconosciuta, e c’è chi come Roberto Ciccutto, amministratore delegato di Istituto Luce e Cinecittà, ha definito la vittoria della Grande bellezza «un punto di non ritorno». Come se da oggi i produttori italiani dovessero diventare più ambiziosi, non affidandosi solo a cose ridanciane di pronto e solo italico incasso. O i finanziatori smettessero di darsela a gambe appena gli propongono del cinema intelligente, e i bravi registi che ci sono e che negli ultimi tempi hanno anche fatto buoni film, avessero il coraggio di pensarla più in grande, per gli spettatori del mondo.
Certo, il cinema in generale non se la passa benissimo, ma per esempio americani e francesi stanno puntando mucchi di denaro su buoni film; da noi manca questo coraggio, si stanno a contare gli euro soppesandone il rendimento, e anche La Grande Bellezza con tutta la sua grandiosità e profondità, è costato tanto meno di qualsiasi filmetto americano a chi l’ha finanziato, cioè Medusa, cioè Berlusconi. Ma bisognerebbe anche che la gente tornasse ad andare nelle sale cinematografiche anche per evitare la barba dei talkshow e la soap della fiction. Poi, certo, passata la fase di orgoglio tricolore, dell’Oscar a Sorrentino, italiano però per conto suo e non di tutti, chi è impegnato politicamente, in pratica contro tutto e tutti, potrebbe finalmente accettare il fatto, per molti impossibile, che la cultura paga, e che siamo all’ennesimo fallimento se a Hollywood un nostro grande regista della nuova generazione al potere, vince un riconoscimento internazionale, e poi a Pompei crolla un’altra meraviglia; e per forza poi l’informazione straniera continua a considerarci con desolata sufficienza.