Paolo Berizzi, la Repubblica 4/3/2014, 4 marzo 2014
L’ERGASTOLO DORATO DEL BOSS CAVORSI AL NIGUARDA DI MILANO. IL RICOVERO COSTA 700 EURO AL GIORNO
MILANO — Killer in sedia a rotelle a spese dello Stato. Condannato all’ergastolo per tre omicidi e detenuto all’ospedale Niguarda da dieci anni. Stanza doppia a uso singolo. Senza piantone. Parenti e amici che vanno e vengono. Uscite in permesso accordate dal giudice di sorveglianza. Assistenza medico-sanitaria garantita. Costo per il sistema sanitario nazionale: 700 euro al giorno, 4 mila e 900 euro a settimana, 235 mila euro l’anno. Il sogno di tutti i detenuti ergastolani abita qui — in senso letterale: qui ha la residenza — , al terzo piano del padiglione Dea dell’ospedale Niguarda. Lui si chiama Francesco Cavorsi, 51 anni, boss di San Giovanni Rotondo trapiantato a Milano negli anni ‘90 quando, assieme ai tre fratelli (Antonio, Paolo e Mario), diventa “ambasciatore” della Sacra Corona Unita (la mafia pugliese). Dal fortino della Bovisa stringe alleanze con feroci organizzazioni criminali serbo-albanesi attive all’ombra della Madonnina. Insieme controllano il traffico di droga e armi provenienti dai Paesi dell’ex Jugoslavia. Cavorsi è bloccato su una sedia a rotelle dal 1988: spari ordinati dal capo ndranghetista Pepè Flachi che vuole eliminarlo. Lui rimane paraplegico, ma questo non gli vieta di eseguire personalmente i suoi regolamenti di conti. La tecnica è sempre la stessa, una specie di marchio di fabbrica: il padrino pugliese si fa accompagnare in auto da due gregari; fa salire le vittime a bordo per parlare. Poi lascia la parola alla sua pistola calibro 7,65. «Bum, bum, bum, bum, bum... cinque colpi ci ho sparato, perché quello non meritava di morire troppo velocemente»: così, nell’estate del ‘92, intercettato dalle cimici piazzate dal pm Maurizio Romanelli, un compiaciuto Cavorsi racconta l’omicidio, eseguito sei mesi prima, di un piccolo trafficante di droga, Virgilio Famularo. È il suo terzo delitto in tre anni: nel ‘90 uccide il veterano della mala milanese Oreste Pecori; nel ‘91 tocca a Antonio Di Masi, spacciatore legato agli slavi. Tre omicidi confessati davanti ai giudici della terza Corte d’assise di Milano. E dunque: nel ‘96, due anni dopo l’arresto (operazione “Inferi”), il 33enne Cavorsi è condannano all’ergastolo con la teorica aggiunta di altri 53 anni di carcere.
Qui inizia un’altra storia. Imbarazzante. La perdita dell’uso delle gambe costringe il boss a una serie di cure e trattamenti particolari, spesso invasivi. Soggetto pericoloso, sì. Ma i giudici decidono che Cavorsi non può stare dietro le sbarre. Le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione in carcere. La pena viene dunque “differita”: al posto della cella, una comoda stanza d’ospedale. Doppia, perché lo stato di detenuto impedisce la condivisione con un paziente “normale”. Tecnicamente Cavorsi diventa un detenuto agli “arresti ospedalieri”. Un detenuto di lusso, che costa molto. Non soltanto perché occupa due posti letto; anche e soprattutto per l’assistenza a cui è sottoposto, emergenza o no. Nella seconda metà degli anni ‘90 gira una serie di ospedali. Poi trova una casa “fissa”.
Nel 2001 al Niguarda — 1.300 letti, 131 mila ricoveri all’anno, il più grande ospedale del Nord — si inaugura il Dea, padiglione che ospita tra gli altri il reparto di chirurgia di emergenza (plastica e maxillofacciale). Non passa molto tempo e il boss pugliese viene ricoverato qui. E qui rimane. Cinquantunenne, risulta domiciliato all’“ospedale Niguarda Cà Granda, piazza dell’Ospedale Maggiore, 3, Milano”. Per essere un ergastolano con alle spalle tre omicidi vive, diciamo, in condizioni non particolarmente restrittive: non c’è nessun agente di piantone che lo controlla; riceve normali visite; gira liberamente in ospedale su quella stessa sedia a rotelle dalla quale vent’anni fa — quando era un killer e muoveva da un ristorante di via Padova, base logistica della mafia pugliese — chiudeva per sempre la bocca ai suoi nemici. Ogni tanto Cavorsi esce in permesso: il via libera arriva via fax dal giudice di sorveglianza.
Secondo la direzione sanitaria del Niguarda, Francesco Cavorsi è detenuto in chirurgia «da quattro anni». A quanto risulta a Repubblica, la lungo degenza, anzi, la lunga detenzione, risale a molto prima. Almeno dieci anni fa, appunto. Quel che si può apprezzare con certezza è l’imbarazzo provocato tra i vertici ospedalieri, e non da ieri, dalla presenza del paziente ergastolano, e da un’“anomalia” che viene a galla solo adesso. «Abbiamo presentato alla magistratura diverse relazioni chiedendo di individuare un percorso e un luogo di detenzione più idoneo — dice il direttore sanitario, Giuseppe Genduso, insediatosi tre anni fa — . Finora nulla si è mosso. Noi curiamo tutte le persone, chiunque siano, ma questo paziente non ha bisogno di una struttura di degenza per malati acuti». Nemmeno a 700 euro al giorno.