Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 04 Martedì calendario

QUEGLI EROI RIBALDI E FRAGILI LO LEGANO A DE SICA E BENIGNI


Il nostro cinema che non è solo specchio del reale
Nei commenti alla vittoria di La grande bellezza come miglior film straniero, Maradona e i Talking Heads, citati come «fonti d’ispirazione», hanno finito per mettere la sordina al ringraziamento del regista a Scorsese e Fellini. Succede, soprattutto in un mondo che a volte sembra inseguire troppo i titoli ad effetto, aiutato in questo dallo stesso regista che mescolando «sacro» e «profano» ha rivendicato per il suo film un padrinaggio musical-calcistico che finisce per esaltarne più l’originalità che i possibili debiti.
Non è certamente questo il momento di addentrarci in dotte disquisizioni filologiche: nunc est bibendum! Ma che il cinema italiano da esportazione (e da Oscar) abbia un tratto comune che unisce De Sica e Tornatore, Fellini e Germi, Petri e Salvatores o Benigni mi sembra indiscutibile. Non è questione del supposto provincialismo un po’ folcloristico tanto caro alle masse di turisti yankee (e su cui Hollywood ha spesso speculato e banalizzato, fino al terribile Mangia, prega, ama con Julia Roberts) ma piuttosto della caratteristica molto italiana — e in fondo debitrice della lezione neorealista — di dare un’indimenticabile e inconfondibile personalità ai propri eroi, adattando elementi reali alle «esigenze» del cinema. Una lezione, va detto, lontana sia dalle ambizioni didascaliche (e ideologiche) che hanno per esempio i protagonisti di 12 anni schiavo , sia dalle aspirazioni universali (e spettacolari) che hanno quelli di Gravity o di American Hustle , «macchine» per niente celibi costruite prima di tutto per conquistare la simpatia di chi guarda.
I personaggi di La grande bellezza , invece, come già quelli di Nuovo cinema paradiso o di La strada , di La vita è bella o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto o Ladri di biciclette (per citarne solo alcuni dei film italiani che hanno conquistato i membri dell’Academy) si stagliano sullo schermo con la forza delle loro radici, che sono insieme «nazionali» e «artistiche». Tutti i protagonisti di quei film sono costruiti per imporsi con un realismo che non è mai solo quello del tipo caratteristico, ma ha una specificità fatta di simpatia e ribalderia, di sicumera e fragilità, fame di vita e insieme noncuranza. Lo Zampanò felliniano, il «dottore» di Volonté/Petri, il Gambardella di Servillo/Sorrentino hanno tutti un modo di porsi sulla scena che li fa insieme amabili e detestabili, simpatici e irritanti. E soprattutto unici. Non sono mai solo dolenti o solo divertenti ma sanno unire l’ambizione (melo)drammatica del trascinatore al destino «all’italiana» della comparsa schiacciata da un gioco più grande di lei.
Continuo a pensare (e non lo si prenda come malevolenza ma come onesto contributo critico) che non tutto sia perfetto nel film di Sorrentino e che qualche volta faccia capolino una certa compiaciuta magniloquenza. Ma i suoi personaggi, dal Gambardella di Servillo alla Ramona della Ferilli al Roman di Verdone fino alla silenziosa apparizione della Ardant nella notte, siano veri gioielli di invenzione e di regia, come lo sono stati in passato l’Antonio Ricci di Ladri di biciclette o il Guido di La vita è bella . Persone vere e insieme indimenticabili, che tutte insieme contribuiscono a fare la «grande bellezza» del cinema italiano.
Se esiste una specificità del nostro cinema che possiamo esportare (e che per esempio aveva fatto la differenza vincente nel primo film hollywoodiano di Muccino, La ricerca della felicità ) è proprio la capacità di far vivere sullo schermo dei personaggi che sembrano presi dalla vita — e della vita hanno le cicatrici, le fatiche, le cadute — ma che ne possiedono anche le dolcezze, le risate, lo spirito creativo. E in dosi diverse anche la voglia di «mettersi in mostra», di farsi vedere e ammirare. Di essere spettacolo. È la lezione di un cinema che sa ancorarsi nell’immaginario del proprio creatore senza perdere i legami con il mondo esterno, un cinema che non si appiattisce sul mero «rispecchiamento» del reale (che finirebbe per soffocare quanto di inventivo e creativo ogni autore può mettere nel proprio lavoro) ma che da lì sa trarre forza e stimolo per restituircelo come non ce lo saremmo mai aspettato. Vero e falso insieme. E sorprendente.