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 2014  marzo 04 Martedì calendario

IL TESORETTO PER POMPEI? QUELLO 0,56% SPESO FINORA


di Un centosettantottesimo! Ecco quanto hanno speso del tesoro stanziato per salvare Pompei. A ogni pioggia, ormai, c’è un crollo. L’ultimo ieri: il terzo in tre giorni. Eppure in quasi tre anni, dei famosi 105 milioni di euro tanto sbandierati, ne hanno scuciti 588 mila: lo 0,56%. Colpa di chi? Di tanti. Ma soprattutto di regole, schemi, meccanismi burocratici che sono ormai più vecchi, più decrepiti e più marci delle rovine lasciate al degrado.
Lo sanno tutti, da anni, che su Pompei ci giochiamo la faccia. Sanno che gli scavi versano in condizioni pesanti e che le domus aperte sono una piccola minoranza rispetto a quelle chiuse e che l’incuria giorno dopo giorno sbrana i mosaici, sgretola le mura delle domus, gonfia affreschi sempre più malandati e destinati presto o tardi a creparsi. Sanno che gli ospiti stranieri ci guardano basiti e scandalizzati dalla nostra incapacità di gestire, curare, amare un luogo così prezioso che appartiene all’intera umanità. Sanno che i giornali di mezzo mondo scrivono che la città vesuviana è la metafora dell’Italia, bellissima e disperante.
Eppure, mentre i soliti fatalisti se la prendono con la scalogna, Giove pluvio, il buco nell’ozono e la pioggia che tormenta «’o paese d’‘o sole», quelli che hanno in mano il destino di Pompei sono impantanati da anni. Nel febbraio del 2010 il direttore degli scavi Antonio Varone scriveva al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi: «È ben noto come un notevole numero degli edifici di Pompei antica versi in condizione di degrado statico dovuto alle malte stanche che li cementano e alle intemperie. Si ravvisa la necessità, a breve, di provvedere per l’incolumità del pubblico e per la salvaguardia stessa del bene archeologico all’identificazione di murature ad immediato pericolo di dissesto statico, onde procedere all’eliminazione dei pericoli richiamati...». «A breve…».
Sono passati più di quattro anni, da allora. E neppure il crollo della Scuola dei Gladiatori dell’autunno seguente, crollo sbrigativamente imputato a Sandro Bondi, è servito a lanciare l’allarme sull’urgenza assoluta di fare in fretta. Ripercorrere le promesse e gli impegni seguiti al trauma della Schola Armaturarum , le cui macerie sono state rimosse solo pochi mesi fa lasciando pezzi di muro con ciò che resta degli affreschi «protetto» da teli di cellophane, è una coltellata al cuore.
Era l’aprile del 2011 quando fu lanciato il piano per la «Grande Pompei» da 105 milioni di euro, poi approvato in giugno dal consiglio superiore dei Beni culturali. Era ottobre quando Giancarlo Galan, subentrato a Bondi, assicurava gongolante che i soldi li avrebbe messi l’Europa: «È fatta!». Era novembre quando il presidente della Campania, Stefano Caldoro, al fianco del commissario europeo Johannes Hahn, tuonava entusiasta: «Questi 105 milioni sono una grande risposta, un grande impegno per il futuro. È il più grande intervento degli ultimi decenni nel sito».
Tre mesi dopo, nel marzo 2012, l’Ansa assicurava: «I primi bandi per la realizzazione del “Grande progetto Pompei” partiranno a breve: la prossima settimana sono attesi i ministri per la firma dei primi atti formali…». Ad aprire Lorenzo Ornaghi, il successore di Galan, garantiva: «L’intensa cooperazione tra i ministeri è un prototipo molto piaciuto all’Europa». Ma è inutile andare avanti con le promesse... Fatto è che nell’aprile 2013 il Corriere denunciava: «Accettiamo scommesse: i lavori per salvare Pompei dureranno una vita e costeranno una tombola. Lo dicono i ribassi di certe gare d’appalto: fare un’offerta del 57% inferiore alla base d’asta significa puntare sul trucco che da anni devasta i cantieri pubblici italiani. Vinto l’appalto, si tirano in lungo i lavori il più possibile per poi pretendere più soldi, più soldi, più soldi».
Previsione facile. Poche settimane dopo, il neoministro Massimo Bray, alla vista dei numeri, faceva un salto sulla sedia: pochissimi appalti fatti, tantissimi ricorsi degli esclusi destinati a durare anni, rarissimi progetti avviati. Un quadro agghiacciante: «Avanti così non ce la faremo mai!». Unica soluzione: varare il «decreto Cultura» per tentare di accelerare i tempi.
Risultato finale? Un durissimo braccio di ferro coi più alti mandarini della burocrazia sul nome del direttore generale del Grande progetto Pompei. Braccio di ferro vinto da Bray con la nomina di Giovanni Nistri (generale dei carabinieri per anni impegnato nel recupero d’opere d’arte rubate) affiancato da un vicario, il funzionario ministeriale Fabrizio Magani. Caso chiuso? Macché. Tutto impantanato a Palazzo Chigi. Un mese intero solo per trasmettere il decreto. Un mese. Peggio ancora col sovrintendente, Massimo Osanna: la nomina è del 20 gennaio, ma l’investitura da allora è al vaglio della Corte dei Conti. Un mese e mezzo di pensamenti e ripensamenti: aveva il ministro il diritto di scegliere un archeologo esterno al ministero anziché un funzionario già nei ranghi governativi? Ai posteri l’ardua sentenza…
Nel frattempo, uno studio riservato preparato dagli staff un paio di settimane fa per gli ex ministri Carlo Trigilia e Massimo Bray getta nello sconforto. Da quel lontano febbraio del 2012 in cui fu varato il progetto Pompei, annunciato un anno prima e invocato addirittura nel febbraio 2010 dal direttore degli scavi, sono stati spesi in tutto, come dicevamo, 588 mila euro. La chiusura dei cantieri prevista per oggi slitterà se va bene (auguri) alla fine del 2015. Su 55 progetti quelli banditi (e meno male che c’è stato il decreto Bray sennò non sarebbe stato consegnato nei tempi giusti neppure un quinto dei lavori) sono solo 14. Risuona nelle orecchie l’antica maledizione di Alphonse De Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?».
Matteo Renzi ha denunciato il contrasto tra le urgenze dell’Italia e i tempi insopportabili della macchina pubblica? Ecco un caso dove dimostrare la volontà assoluta di sradicare la mala pianta delle pastoie burocratiche. La sradichi in fretta, se ce la fa. Sennò, poiché Pompei non appartiene solo a noi ma a tutto il mondo, al diavolo l’amor proprio: diamola da gestire, curare e amare a chi può farlo meglio di noi.