Raffaela Carretta, IoDonna 1/3/2014, 1 marzo 2014
UNA DONNA PIÙ GIOVANE TI DÀ LE GOMITATE. VIRTUALI
SI CHIAMA VITTORIO VICENTI, in arte Vie Vicent, l’ombra a cui si è dedicato Ivano Fossati nell’ultimo scorcio dei due anni, quando, tra lo sgomento di chi lo ama, si è volatilizzato dal nostro radar. È per questo allora che ha detto addio alla discografia, ai concerti e a tutto il resto? «No, non era certo per fare lo scrittore. I primi sei mesi dopo aver chiuso non mi sono mosso, immobile sotto l’immaginaria palma tropicale a oziare, il piccolo mito di quando lavoravo troppo... Poi ho cominciato a scrivere il romanzo e mi ci sono buttato con furia».
È Tretrecinque (Einaudi) il titolo dell’esordio letterario che ora Fossati racconta in questa intervista, la prima dopo il ritiro dal palco. Tretrecinque come il nome saldato nel cuore roccioso della musica, quello della Gibson Es 335, la chitarra elettrica che ha accompagnato tanti grandi, da B. B. King a Eric Clapton. È stata pure quella di Fossati e adesso appartiene al protagonista della sua storia. Per questo, leggendo d’un fiato, si respira un alone riconoscibile, una specie di ritorno alle origini? «Non è un libro autobiografico, né musicale. Mi sono solo servito di uno scenario che conoscevo bene, le balere, i locali, le band, quello che i musicisti fanno o pensano, sempre un po’ terra-terra: dopotutto sono solo orchestrali. Ne ho conosciuti tanti così. Io ero così. È quella la mia appartenenza. Più di quell’altra, da intellettuale della musica: un cappotto che mi è sempre andato larghissimo». Non è poi così sorprendente, per chi ha scritto alcune tra le più struggenti canzoni d’amore, che il nocciolo alla fine siano i sentimenti: «Quelli tra un uomo e quattro donne che in momenti diversi appaiono nella sua vita. E lui è la pallina da flipper che rimbalza tra loro. Perché Vittorio è sempre vissuto facendosi trascinare, come quei pezzi di sughero che il mare ricaccia avanti e indietro. Del resto succede così a tanti maschi: sono le donne a riscattarti». Perché? «Perché sotto c’è sempre una forma d’innamoramento, magari inespresso. Con Ysel, l’ultima, c’è appena un bacio. Lei ha trent’anni di meno e un altro compagno, lui sessanta e non ha più voglia di fare il cretino con l’occhio da triglia. Giustamente: occorre lasciare andare il tempo, i giorni arrivano e bisogna farcisi trovare dentro con la propria età. Non si può pensare che il mondo si appassioni costantemente a te».
HA QUALCOSA DI DIRITTO Fossati: la tenuta delle spalle, la schiena verticale di chi, forse, da ex bambino più alto degli altri, ha resistito alla tentazione di curvarsi, restando eretto, tenendo lo sguardo in avanti e non in basso. E il fisico non c’entra: «Sono sempre andato per la mia strada, senza farmi influenzare troppo. È presuntuoso da dire, lo so. Mi salva un fatto, non ho timori reverenziali. Se hai un’idea puoi buttarti, si chiama utile incoscienza. È sempre stato così, anche nella musica. Per fare una canzone hai bisogno di grande leggerezza. D’immaturità, che io ho al massimo grado. E, almeno un po’, di esibizionismo. Sennò sul palco per quarant’anni non ci sali. La stessa cosa che ti fa scrivere un libro che una grande casa editrice pubblicherà. A tuo rischio perché hai già un nome». Anche avendo un nome però ci si può sentire sempre un autodidatta, ci si può sforzare di mantenere intatta la propria ingenuità. «Ho smesso di studiare presto, a 17 anni. Era esploso il beat. Ero monomaniaco. Mia madre è una donna d’acciaio, faceva la sarta al teatro dell’Opera di Genova, conosceva il mondo dei cantanti e le loro pazzie, sapeva che c’era valore in quello che facevano. Vuoi suonare? Da domani ti cerchi un lavoro. E così ho cominciato a fare provini nelle sale da ballo».
Eppure, in questa storia molto maschile che non finge di non esserlo, se si dovesse tirare un filo sarebbe l’essere padre: la paternità lo riempie, cullandolo come una nostalgia intermittente. «Di paternità ne so parecchio. Perché un padre non ce l’ho mai avuto, se n’è andato quando avevo un anno e non si è più occupato di me. Invece con mio figlio Claudio, che ora ha quarant’anni e per venti ha fatto il mio batterista, c’è molta vicinanza. Avevo 22 anni quando è nato da Gildana, la mia prima moglie. Ero giovane, nel pieno di quell’energia che ti fa pensare troppo a te stesso, al tuo lavoro. Oggi mi dico che sarebbe stato bello stargli più accanto quando era bambino. Invece l’ho scoperto che aveva 12 anni».
Ha mai pensato di fare un altro figlio? «Per adesso no, ma non lo escludiamo. Non è neanche tardi...». Fossati vive da sedici anni con l’attrice teatrale Mercedes Martini, 39 anni. Dice che una delle differenze tra loro è che lei è una votatrice accanita e lui no. «Di politica non so più nulla. Me ne sono occupato fino al 2006, ai tempi della Canzone popolare prestata all’Ulivo. Poi basta, ho raggiunto il punto di non ritorno, non voto più. E vedere che il Pd di Renzi riabilita Berlusconi non aiuta». Dice che nello stare con una donna che appartiene a un’altra generazione non c’è nessun rimpianto per la giovinezza, nessun tentativo di acciuffarla per conto terzi. «È solo una fortuna. Elimina il rischio di sganciarti dal treno del presente che va velocissimo, perché appena dici no, questo non mi interessa, lei ti da una gomitata’ virtuale: ehi, siamo nel 2014!».
Quando si guarda indietro invece è come se si vedesse sempre in fuga. «Alcune donne che ho amato sono state determinanti, ma io tendevo a scappare da tutte le parti. Era difficile tenermi fermo». Una delle storie più importanti è stata con Mia Martini. «Ci si dimentica sempre che Mia è stata un’artista abbagliante. E non finisce mica il cielo poteva cantarla solo lei, magnifica. E la sua intensità emotiva era altrettanto gigantesca e incontrollabile. Mi ferisce che ormai se ne parli con pruriginosità, solo per scandagliarne il dolore».
QUANDO MERCEDES è arrivata ha segnato una svolta. «Non per una presa migliore delle altre ma perché mi ha rieducato, letteralmente, ai sentimenti. Mi ha insegnato una cosa che non sapevo: l’amore non va lasciato solo. Ogni giorno devi illuminarlo con le tue cure». Sembra l’eco di una delle sue canzoni più belle (“la costruzione di un amore / spezza le vene delle mani / mescola il sangue col sudore / se te ne rimane”) ed è l’approdo di un viaggio cominciato davvero altrove. «Da ragazzino più che in fuga ero immobile, congelato in una timidezza patologica. Per avvicinarmi a una ragazza ci mettevo settimane e mi tremavano i muscoli della faccia. La prima fidanzatina lavorava in uno studio di avvocati del centro. Non ho mai più patito il freddo provato mentre l’aspettavo sotto l’ufficio. Abitavo a Marassi, in periferia, ma lei stava ancora più lontano. Prendevamo l’autobus, ci inerpicavamo su per i quartieri di Genova e finalmente, davanti a casa sua, si materializzava quello per cui vivevo tutta la settimana: strappato alla pioggia e al buio ecco l’unico bacio. Uno scambio di timidezze. Il resto del corpo non esisteva, era una trasgressione a mezzo busto».
Trasgressione a mezzo busto potrebbe essere un bel titolo per una canzone... «Canzoni ne scrivo ancora. Per Marco Mengoni, Fiorella Mannoia... Non mi sono dimesso dalla musica, solo dalla routine: incisioni, concerti, promozioni. I negozi di dischi, se ancora esistono, sono pieni di lavori fatti per rispettare un contratto. Ma il lampo, be’, quello lo avverti una volta su dieci».