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 2014  marzo 01 Sabato calendario

MAI DIRE MAO


L’Air China CA 950 delle otto di sera ha appena chiuso il portellone, la hostess con gli occhi a fessura e i capelli di seta ha salutato con voce flautata e incomprensibile, il mio vicino ha già tolto le scarpe e infilato il pigiama con il colletto alla coreana, grazioso omaggio della compagnia, pronto a dormire per le dieci ore di volo. E mentre sto per spegnere il telefonino, il bip con l’ultimo sms prima del decollo: «Se riesci mi porti una sveglia a lancette con dentro Mao e il libretto rosso?».
Vado in Cina, e i miei amici lo sanno. C’è chi mi ha raccomandato di andare a vedere Domus Tiandi (vetri di Barovier e Toso, l’arco di Castiglioni e le lampade Flos, oltre alle cabine armadio di Poliform) sulla Jin Bao nel cuore di Pechino, chi mi ha detto che non devo perdere per nessuna ragione la Città Proibita, chi si è fatto promettere che avrei assaggiato l’anatra laccata di Da Dong (il Davide Oldani della cucina cinese che ha appena aperto un nuovo ristorante accanto al Worker Stadium, costato 20 miliardi), chi mi ha raccontato di avere lasciato il cuore al museo Aurora a Pudong, la nuova Shanghai, disegnato da Tadao Ando per ospitare una delle più importanti collezioni al mondo di arte classica cinese. E chi, come Giovanni, mi ha chiesto la sveglietta di Mao.
La faccia del grande timoniere comincio a vederla appena sbarco, al Beijing Capital International Airport. Vai a cambiare i tuoi euro e, come a Londra ti imbatti nella Regina, ecco Mao su tutte le banconote. I viaggiatori questo vizio ce l’hanno: fare sempre paragoni. Così mi ricordo il il ritratto di Ho Chi Minh su tutti i muri possibili in Vietnam, e le statue in ogni città. Qui, invece, vedi il ritratto gigante sulla piazza Tienanmen, ti dicono che c’è una statua alla Beida di Pechino, una a Hangzhou, vedo con i miei occhi quella della Tongji, una delle Università di Shanghai, ma basta così. Fu Deng Xiao Ping a dire che il compagno Zedong aveva fatto bene al 70 per cento e male al 30. Ecco, da allora tutti i cinesi se ne sono convinti e pur non essendoci un imperativo a dimenticare Mao, certo nessuno fa niente per alimentarne il culto. Dice Alberto Bradanini, il nostro ambasciatore nella Repubblica popolare, che i cinesi «non negano l’eredità del maoismo, ma vogliono demitizzarlo».
Arrivo in Cina in un momento davvero straordinario: il plenum del partito ha appena allentato l’obbligo del figlio unico, ridotto il ricorso ai campi di lavoro e limitato i casi in cui è prevista la pena di morte. Ha disegnato la nuova Cina, più aperta al mercato, al privato e al benessere dei cittadini. Orientata sempre alla crescita, ma da oggi non a tutti i costi e a qualsiasi prezzo. L’intero Paese è under costruction. Se, invece che in volo, vai da Pechino a Shanghai con il treno superveloce, lungo i 1.300 chilometri vedi tutto un cantiere. I numeri fanno paura: quella cinese è la seconda economia mondiale dopo quella americana, gli abitanti sono un miliardo e 380 milioni (se Mao non avesse adottato la politica del figlio unico, ti dicono, sarebbero 470 milioni di più). Nel 2012 il tasso di crescita è stato del 7,8% (era del 9,2 nel 2011). Nel giugno scorso il Consiglio di Stato ha varato il maxipiano per l’urbanizzazione e ha previsto che, in 15-20 anni, 350 milioni di cinesi si sposteranno dalle campagne nelle città. Fra 12 anni ci saranno quindici città con più di 25 milioni di abitanti, 22 con più di 10 milioni, 23 da oltre 5 milioni. E nasceranno 221 nuove città. Bisognerà costruire 5 miliardi di km di strade, 28mila km di linee metropolitane, sono previsti investimenti per 5 mila miliardi di euro.
Mao è sullo sfondo: nel presente c’è ben altro. Non sono nostalgici ma solo curiosi quelli che a Pechino vanno a cena al Red Classic Restaurant, camerieri vestiti da Guardie Rosse, musiche, danze e perfino piatti dei tempi della Rivoluzione Culturale, nonché ritratti di Mao in ogni salone. E sono collezionisti, non reazionari, quelli che stanno facendo schizzare alle stelle i prezzi dei memorabilia dell’era maoista, messi all’incanto dal Guardian Auctions Chinese Painting: qualche sabato sera fa un album di 37 poemi di Mao è stato battuto per 2,34 milioni di dollari. Nei mercati, però, il libretto rosso si trova a fatica. Me lo scova Yijia, un amico cinese, al mercato dei falsi vicino al Peace Hotel. Gli hanno chiesto 50 Ren Ming Bi (che vuol dire la moneta del popolo), lo strappa per 30, poco meno di 4 euro.
Altro che libretti rossi: l’italiano che rappresenta a Shanghai la concessionaria Ferrari racconta che i vecchi ricchi vanno in giro con la Bentley e l’autista, ma sono i giovani dai 18 ai 25 anni che comprano le Ferrari. Dice che però le vogliono speciali, ricoperte di sticker viola, per esempio. Paola Ferro, la deliziosa moglie del console italiano, rivela che la sua vicina di casa va a fare la spesa con la Porsche Cayenne e che quando va a spasso usa la Rolls. Corso Como ha appena aperto a Shanghai uno store su quattro piani, dal primo al quinto, perché qui il quarto porta male. Armani ha festeggiato da poco a Beijing i suoi primi dieci anni in Cina con una One Night indimenticabile. Sulle strade sfrecciano Yunday, Mercedes, Wolkswagen uguali alle nostre ma con nomi cinesi. Le pubblicità di Zegna sono gigantografie sui muri dei grattacieli; la testimonial di un’acqua minerale è l’ultima Miss Italia. Le cene più raffinate si fanno nei club privati - come quello della raffinatissima Cathy Zhang, al numero 140 di Nan Chizi Street - dove il fuoco nei camini, piccola battaglia contro l’inquinamento, è a bioetanolo, le sedie sono di Max Alto, le cucine a vista e tutto è sui toni del beige. Nei ristoranti di lusso si beve vino francese e non si mangia mai il riso. «L’imperativo», dice il console generale d’Italia Vincenzo De Luca, «è guardare avanti senza distruggere». Così chiedo a Sonia Song Ying, 42 anni, interprete che si sente cittadina del mondo, cosa sia per lei Mao. E ricevo una risposta fantastica: «Da bambina, mia madre mi aveva regalato un bellissimo gilet rosso e non vedevo l’ora di metterlo. Invece non ho potuto: è morto Mao e tutto il Paese ha dovuto mettersi a lutto».
Passo l’ultimo giorno alla ricerca di quella benedetta sveglietta. Finisco nella piazza di Pechino dove i genitori cinesi che non si rassegnano al cambiamento dei costumi si ritrovano con le foto dei figli e delle figlie non ancora sposati, a cercare per loro una moglie o un marito. C’è la fila ordinata davanti al negozio che vende i ravioli al vapore più buoni della città. Ci sono paccottiglie di tutti i tipi, negozi di tè, boccette di vetro dipinte all’interno con un pennellino ricurvo. Ma della sveglia con Mao nemmeno l’ombra. Mi avevano giurato che qui l’avrei trovata, invece il bottegaio mi guarda con sufficienza: «Poveretti», mi dice, «sono molti i turisti che la chiedono ma mi dispiace, io non ne ho più». Dimenticare Mao?