Erwin Koch, D, la Repubblica 1/3/2014, 1 marzo 2014
LE DUE MADRI DI CARLOS
Davanti a casa è parcheggiata una Ford Falcon verde. Carlos entra in casa correndo e trova Marta, la donna che chiama mamma, le manette ai polsi e uno sguardo pieno di paura. È il 14 giugno 1995, a Riobamba Ecke Lavalle, Buenos Aires. I poliziotti spingono Marta nella Ford e partono sgommando.
Carlos, nato il 26 gennaio 1978 alle due di notte in una stanza di tortura della polizia nella provincia di Buenos Aires, sale in macchina accanto a Marta. L’auto si ferma davanti al commissariato di Avenida Belgrano, Marta e Carlos vengono fatti sedere su una panca. Poi Marta Leiro, 57 anni, ex moglie del tenente Carlos Federico Ernesto de Luccia, viene condotta in un ufficio, Carlos rimane là fuori. Mai aveva dubitato di essere il figlio biologico di Marta Leiro e del suo ex marito, l’uomo che lo chiamava Pichino e che la sera gli raccontava le avventure del gatto Chico.
Carlos Federico Ernesto de Luccia, marito di Marta Leiro, tenente e membro dei servizi segreti della marina, abbandonò l’esercito nel 1971, cinque anni prima del golpe dei generali del marzo ’76. Un attimo dopo, i militari sciolsero il congresso, destituirono la Corte Suprema, diedero il via agli arresti a tappeto e misero in piedi 340 stanze di tortura. In sette anni assassinarono oltre 30mila persone. «Oggi so», racconta Carlos d’Elia, 36 anni, in quest’intervista che si svolge in una camera d’albergo di Buenos Aires, «che mio padre era al corrente di ogni cosa». Nell’ottobre del 1977, Carlos Federico, divenuto rappresentante di una ditta di assicurazioni, si rivolse a un conoscente, Rodolfo Anibal Campos, a capo della polizia di Buenos Aires e complice dell’arresto e della tortura di 21 persone, per chiedergli un favore Campos inoltrò la richiesta al medico della polizia Jorge Bergés, “consulente” incaricato di far partorire le prigioniere prima della loro esecuzione.
La mattina del 26 gennaio 1978 Carlos Federico telefonò alla moglie Marta: «Passo a prenderti tra poco». Pioveva. Un’altra macchina si fermò accanto alla loro, ne scese un uomo con un cappotto lungo e il capo coperto da un cappuccio. In mano aveva un fagotto, che le passò dal finestrino, avvolto in carta di giornale e impregnato del sangue della madre.
Dopo aver aspettato a lungo seduto sulla panca, Carlos, intorno all’ora di pranzo viene trasferito a San Isidro. Arrivati al Tribunal Oral Federal N. 1, un giudice gli parla: «Tu non sei il figlio naturale di Carlos de Luccia e Marta Leiro, ma di Julio d’Elia e Yolanda Casco, una coppia di uruguayani arrivati in Argentina nel 1974 e arrestati il 22 dicembre del ’77, poco lontano da qui. Da quel giorno entrambi sono desaparecidos».«Voglio andare dai miei genitori!», dice Carlos. «Vorremmo farti un prelievo», continua il giudice. «Scordatevelo! », grida il ragazzo.
«Ho avuto fortuna con i miei genitori», racconta oggi Carlos. «Gli sono riconoscente per tutto, anche se mi hanno mentito. Anche se sono stato strappato dalle braccia di mia madre Yolanda», racconta Carlos Rodolfo d’Elia Casco, camicia bianca, pantalone elegante, economista al Ministero degli Esteri Argentino. In segno di gratitudine per l’aiuto ricevuto da Rodolfo Anibal Campos, l’uomo che aveva permesso alla famiglia de Luccia di avere un figlio tutto loro, la coppia battezzò il bambino Carlos Rodolfo.
Torniamo agli anni ’70. Circa 6 mesi dopo che il bambino era arrivato nella casa di Carlos e Marta, il marito perse la testa per un’altra donna e se ne andò. Marta Leiro si prese cura di Carlos nel loro appartamento in Avenida Montes de Oca, facendolo diventare un ragazzo chiacchierone e sorridente. Ogni giorno telefonava l’uomo che il piccolo credeva suo padre e Marta passava la cornetta al bambino. Lei lo riempiva di baci e di coccole. Ogni mercoledì il padre passava a prendere Carlos e lo portava a casa sua nel quartiere Flores, in Calle Baldomero Fernandéz Moreno. A volte lo portava con sé alle feste, presentandolo orgoglioso ad amici e parenti. Tra questi c’era Rodolfo Anibal Campos, capo della Polizia di Buenos Aires dal marzo del 1976 all’ottobre del 1983, e complice nella realizzazione di 21 prigioni speciali compreso Pozo de Quilmes, il luogo dove la madre naturale di Carlos Yolanda venne torturata, e Pozo Banfield, diede alla luce il suo bambino. «Le mani sulla culla», così il quotidiano Página/12, venerdì 16 giugno 1995, titolava l’articolo che rendeva pubblico il primo caso di rapimento di un neonato durante la dittatura. Un ex tenente dell’esercito e sua moglie erano stati arrestati per aver preso il bambino di una desaparecida. Carlos oggi racconta di non ricordare se quell’articolo lo avesse letto: «Non ho mai chiesto a mio zio se ciò che la gente diceva era la verità. Non parlai con nessuno di ciò che mi era accaduto, e nessuno ne parlò con me».
La sera del 20 giugno 1995, la settimana dopo l’arresto di Marta Leiro, un giudice chiede a Carlos d’Elia di presentarsi al Tribunal di San Isidro: persone venute da lontano vorrebbero incontrarlo. «Carlos, sono venute fin qui per conoscerti, ti hanno cercato per 17 anni». «Non li voglio vedere! », urla il ragazzo, studente del collegio San Juan Bautista de la Salle. Lo zio Enrique, con cui era andato a vivere, viene invitato nella stanza e il giudice spiega che al ragazzo farebbe bene affrontare la realtà. «Nella stanza accanto ci sono sua nonna e sua zia, arrivate dall’Uruguay», aggiunge. Alla fine Carlos si piega. Si trova di fronte una donna anziana, Renée d’Elia, la madre di suo padre Julio, e Regina Casco, sorella di sua madre Yolanda. «Volevo scappare», racconta oggi, «invece porsi loro la mano dicendo che comprendevo il loro dolore».
Un attimo dopo dice di non sentirsi bene ed esce dalla stanza. Si fionda nell’auto di suo zio. Il mattino dopo, Página/ 12 riporta che per 17 anni Renée d’Elia, nonna di Carlos, aveva pregato ogni sera di poter incontrare suo nipote. «Non avevo mai fatto domande a mia madre sul giorno in cui sono nato», racconta Carlos. Durante i nove mesi che Carlos Federico e Marta Leiro trascorsero in carcere, Carlos visse da suo zio Enrique e continuò a frequentare l’ultimo anno di scuola al Colegio. Il mercoledì e il sabato, dopo le lezioni, andava a trovare Marta. «Parlavamo della scuola, del tempo o della mia fidanzata Inés. Anche quando andavo da mio padre parlavo poco. La domanda se fosse vero quello che raccontavano me la tenevo per quando sarebbero usciti di prigione», racconta Carlos passandosi una mano sul volto stanco. «Mamma mi diceva spesso che assomigliavo a mio padre», racconta. «Diceva che anch’io ero sfacciato e rumoroso. Papà era il mio idolo».
A 9 mesi dall’arresto, scontato un terzo della pena, Marta Leiro e il suo ex marito vengono rimessi in libertà su cauzione. Carlos ha 18 anni. Seduti in cucina, lui e Marta attendono insieme l’arrivo di de Luccia, che diversi anni prima si era risposato. Carlos voleva finalmente la verità.
«C’è qualcosa che dovete dirmi?». ««Non sei il nostro figlio biologico», esordisce l’uomo, «Marta non poteva avere figli. Tua madre era una giovane di Mendoza, senza famiglia né denaro, per questo ti abbiamo preso con noi. Sei e rimarrai il nostro amatissimo figlio. Non c’è altro da aggiungere». Marta rimane in silenzio.
«Io non feci altre domande», ricorda oggi Carlos. «In questo Paese raramente la gente fa domande, forse per paura della risposta. Ma se c’è una cosa che rimprovero ai miei genitori, è di avermi mentito allora, quando ormai era provato che ero il figlio di Yolanda e Julio. E io decisi di credere alle loro parole».
Agli inizi degli anni ’80, Renée d’Elia, residente a Montevideo, Uruguay, madre di Julio Cesar d’Elia e suocera di Yolanda Casco, entrambi emigrati in Argentina nel 1974, sentì parlare per la prima volta delle Abuelas de Plaza de Mayo, un’associazione con sede a Buenos Aires fondata da donne che cercavano di ritrovare i nipoti nati durante la dittatura militare nelle carceri e affidati a persone che sostenevano il regime. Pare fossero circa 500 bambini. Renée si mise in viaggio. Attraversò il Rio de la Plata, incontrò le altre nonne, mostrò loro delle foto della sua famiglia e mise per iscritto tutto ciò che sapeva.
«I miei genitori», racconta oggi Carlos, «sono stati prelevati la notte del 22 dicembre del 1978 dal loro appartamento al secondo piano di Calle 9 de Julio 1130 a San Fernando, nella Provincia di Buenos Aires». La madre di Carlos lavorava come segretaria a San Isidro ed era al nono mese di gravidanza, mentre suo padre, che aveva studiato economia, lavorava in un piccolo istituto di credito. Entrambi erano attivi politicamente e, prima di fuggire in Argentina in seguito al colpo di Stato uruguyano, erano stati membri dei GAU (Grupos de Acion Unificadora).
Un giorno, le Abuelas de Plaza de Mayo ricevettero due telefonate anonime, grazie alle quali vennero a sapere dell’esistenza di alcuni certificati di nascita di neonati scomparsi, firmati dal medico della polizia Jorge Bergés. Tra questi, quello di Carlos Rodolfo de Luccia, che risultava non essere il figlio biologico di Marta Leiro e Carlos Federico Ernesto de Luccia. In seguito a questa segnalazione le Abuelas si rivolsero alla giustizia argentina (il regime era caduto da tempo) e le indagini condussero a ritenere che Carlos fosse il figlio di Monica Edith Olaso e Alejandro Efrain Ford, scomparsi nel ’77.
«Ricordo quel giorno», racconta Carlos. «Avevo 8 anni e papà mi accompagnò a fare il prelievo del sangue. In ospedale c’erano molte persone, oggi so che erano poliziotti. Papà non la smetteva di ridere, e mi diceva: “Pichino, queste persone sono qui per te, per starti vicino mentre il dottore prende un po’ del tuo sangue”». Il prelievo diede esito negativo, il campione, però, restò all’ospedale Durand.
Quando Carlos Federico Ernesto de Luccia tesseva le lodi del nuovo Presidente Carlos Menem per aver concesso la grazia ai vecchi tiranni rinchiusi dopo la caduta del regime, il ragazzo annuiva. «Della dittatura non parlai mai, né a casa con mamma e papà, né a scuola».
Durante l’inverno del 1995, Estela Carlotto, Presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, chiese alla sua amica Marie Claire King, medico all’Università di Berkeley, California, specializzata in biologia molecolare, di confrontare il sangue prelevato 7 anni prima a Carlos Rodolfo de Luccia con quello di Regina Casco, sorella di Yolanda Casco, scomparsa dal 22 dicembre 1977.
Il 14 agosto 1995 arrivò un fax dalla California: il DNA di Carlos de Luccia combacia con quello di Regina Casco. All’epoca Carlos, diciottenne, aveva cominciato a frequentare il corso di economia all’Universidad de Buenos Aires. Da quel momento, il ragazzo cominciò a incontrare sua nonna e sua zia, che una volta al mese arrivavano dall’Uruguay cariche di racconti e regali. Scappò via solo quando sua nonna gli mostrò una foto in cui si vedeva Yolanda con il pancione, incinta di lui. La nonna un giorno chiese a Carlos: «Perché chiami mamma la donna che ti ha rubato?».
Il 26 aprile ’97, quando Carlos Federico de Luccia fu stroncato da un infarto, il giovane Carlos pianse a lungo davanti alla bara del padre. Il 4 e 5 maggio 1998, Marta Leiro comparve davanti al giudice del tribunale di Olivos, Provincia di Buenos Aires. Carlos, ventenne, decise di non seguire l’udienza.
Il difensore di Marta le consigliò di ripetere la versione dei fatti fornita in occasione del suo arresto tre anni prima: «Dopo 18 anni di matrimonio e una cura ormonale sono rimasta incinta. Il 25 gennaio 1978, nel viaggio di ritorno da una vacanza a Mar de la Plata, mi si sono rotte le acque e ho dato alla luce mio figlio Carlos Rodolfo». Marta invece dichiarò: «Una macchina si fermò accanto alla nostra e scese un uomo con un cappotto lungo e il capo coperto da un cappuccio. Mi passò dal finestrino un fagotto avvolto in carta di giornale, impregnato del sangue della madre ». Il giudice le chiese se conosceva quell’uomo, Marta rispose di no. «Non so perché mamma mentì. Non glielo chiesi mai».
Marta Leiro fu condannata a tre anni di reclusione per sottrazione di minore e falsificazione dell’identità di un minorenne. La corte decise che da quel momento Carlos non si sarebbe più chiamato Luccia Leiro, bensì d’Elia Casco. «Io però quel nome non lo volevo», racconta Carlos, oggi padre di tre bambine. «Immagina di avere una bacchetta magica e di poter esprimere un desiderio». Carlos avvicina una mano all’altra. «Vorrei che i miei genitori fossero orgogliosi di me». «I tuoi genitori?». «Julio e Yolanda».
Il giorno delle sue nozze, il 18 febbraio del 2000, Carlos, 21 anni, invitò le sue due famiglie, quella argentina e quella uruguayana. Entrò nella chiesa di Nuestra Señora de Pilar accompagnato da Marta Leiro. Nonna Renée decise di non venire, non avrebbe potuto sopportare quella vista. «Non avrei mai accettato di sposarmi senza Marta al mio fianco», spiega oggi Carlos. «Le tue figlie conoscono la verità?». «Sì. Sanno che ho due madri e due padri. E che la donna che mi ha allevato prega per la donna che mi ha messo al mondo».
Carlos d’Elia terminò gli studi e cominciò a recarsi regolarmente dalla nonna in Uruguay. Lei gli cucinava i piatti preferiti di Julio, raccontava aneddoti e gli mostrava vecchie foto. Un giorno gli chiese di nuovo: «La chiami ancora mamma, Marta?».
«Una notte», racconta Carlos, «era il 2005, mentre tornavo in Argentina avvertii una fitta lacerante nel petto. Capii che aveva a che fare con la mia incapacità di far convivere il prima e il dopo. Decisi che era giunto il momento di guardare in faccia la realtà: volevo sapere ogni cosa». Certo di trovare documenti e informazioni su Yolanda Casco e Julio d’Elia, Carlos si recò nella sede delle Abuelas de Plaza de May. Gli consigliarono di rivolgersi alle persone che lo avevano allevato. Carlos, 27 anni, salì su un taxi e raggiunse la casa di Marta Leiro: «Mamma, se mi ami veramente, non mentirmi più».
Marta raccontò che nel ’77, dopo diciotto anni di matrimonio, ancora non era riuscita ad avere un bambino, che aveva supplicato suo marito di fare in modo che potesse averne uno, in che modo non le importava, disse. «Mamma, è la verità?». «Sì, è la verità». «E non ti interessava sapere da dove veniva, chi l’aveva partorito?». «No». «Sapevi in che circostanze sono nato?». «Tuo padre mi disse che meno sapevo e meglio era per tutti». Seguirono notti insonni, durante le quali Carlos d’Elia fece milioni di ricerche usando i nomi dei suoi genitori argentini e dei suoi genitori uruguayani. Trovò alcune testimonianze di persone sopravvissute a quell’inferno, tra cui Luis Taub, l’addetto alla pulizia della cella di Yolanda, e Adriana Chamorro, detenuta con Yolanda nel Pozo de Banfield. Lei sapeva che lì Yolanda aveva dato alla luce un bambino.
Il 24 luglio 2007 Carlos d’Elia vide per la prima volta il luogo nel quale era nato. «Era inverno e faceva un freddo terribile. Ines era al mio fianco, le bambine erano a casa con Marta. Ho visto la cella in cui mia madre era stata tenuta prigioniera. Ho visto la stanza dove sono venuto al mondo. Non avevo mai provato un freddo così intenso».
«Marta sapeva che eri figlio di una donna che era stata torturata?». «Mio padre lo sapeva».
In seguito Carlos si recò ancora in Uruguay per incontrare alcuni amici di Yolanda e Julio. «Oggi so in che modo sono stati arrestati. So dove vennero rinchiusi, prima nelle segrete di San Fernando, dove furono fustigati a sangue, poi nel Centro de Operaciones Tacticas, Martinéz, San Isidro. Mio padre Julio, assieme ad altri quattro uruguayani, venne imbarcato e rispedito in Uruguay, dove fu assassinato. Mia madre Yolanda fu rinchiusa nel Pozo de Banfield, distretto di Lomas de Zamora. Mi partorì il 26 gennaio ’78, scomparve nel nulla il 15 maggio». «Ti capita di sognare Yolanda e Julio?». «Spesso». «E sono sogni belli?». «Dipende. A volte sogno le violenze che hanno subito e mi sveglio nel cuore della notte in lacrime, sudato e terrorizzato».
Un giorno d’inverno del 2008, Carlos si recò in Calle Montevideo e suonò il campanello di Rodolfo Campos, il capo della Polizia di Buenos Aires all’epoca della dittatura. «Volevo sapere da lui in che modo ero arrivato da Marta e Carlos». «Non ricordo », disse Campos toccandosi una cicatrice sulla fronte, «ho avuto un’emorragia cerebrale». «Fu lei a chiedere al medico della polizia Jorge Bergés di recuperare un bambino per mio padre e sua moglie?». «Non ricordo», rispose Casco indicando la cicatrice, «non sono più lo stesso di prima ».
Il 4 maggio del 2012, Carlos d’Elia, trentaquattro anni, è in piedi davanti alla casa di Jorge Bergés. Una donna gli domanda cosa desidera. «Voglio solo parlare!». Bergés fa sapere di non avere tempo. Carlos scrive il suo numero di telefono su un foglietto e lo porge alla donna. Jorge Bergés, il medico che nel 1978 assistette Yolanda Casco durante il parto nella stanza delle torture di Pozo de Banfield, non richiamò mai.
Il 5 luglio del 2012 Carlos d’Elia è nell’aula della corte federale per il processo agli ex dittatori. Il suo caso è uno dei trentacinque presentati dall’accusa come prova dei rapimenti di bambini in cui erano coinvolti i generali. Carlos non applaude, non piange, vuole solo tornare a casa.
Il colonnello Rodolfo Anibal Campos, convocato quattro mesi più tardi dal tribunale con l’accusa di sequestro di persona, tortura e omicidio, amico della famiglia de Luccia, alla quale aveva fatto un favore, si rivolge alla corte: «Giurati, davvero credete che l’esercito sia ricorso alla tortura e all’omicidio senza motivo? Lo facevamo per avere informazioni. Somos educados, no somos una banda armada».
La sera prima che la vita di Carlos Federico de Luccia cambiasse il suo corso, lui telefonò al figlio Carlos: «Pichino, domani vai col tuo fratellastro nella casa di campagna. Sebastian ha dei problemi, distrailo». La mattina seguente, a 170 chilometri da Buenos Aires, il telefono di Sebastian suonò: «Dobbiamo tornare a casa! Nostro padre e tua madre devono andare in prigione. Dicono che non sei figlio loro, che ti hanno rubato». Carlos si passa una mano tra i capelli. «Mio padre non voleva che fossi presente quando sarebbero venuti a prendere Marta. Sapeva dell’arresto, sapeva tutto».
Davanti a casa era parcheggiata una Ford Falcon verde. Carlos, sconvolto, entrò in casa correndo e trovò Marta, la donna che chiamava mamma, in piedi sulle scale, le manette ai polsi. Quel 14 giugno 1995 era un mercoledì, era da poco passato mezzogiorno. «E io non domandai: “Mamma, è la verità?”» (Traduzione di Micaela Calabresi)