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 2014  marzo 03 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - L’OSCAR A LA GRANDE BELLEZZA


PEZZO DI CURZIO MALTESE SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
In comune con l’Italia rimasta a casa c’è che l’uomo di cui tutti parlano è della generazione degli anni Settanta. Paolo Sorrentino è del 1970, Matteo Renzi è del 1975, il che fa di entrambi dei giovani, per i parametri del paese più vecchio del mondo. Per il resto l’Italia vista da Los Angeles alla vigilia della notte degli Oscar assomiglia poco a quella che siamo costretti a raccontare ogni giorno, persa nei meandri della politica. L’Italia, si dice spesso, non conta quasi nulla per gli americani, ma vale per la vita del palazzo, che invece assorbe da noi tutta l’attenzione dei media. Bisogna saltare diecimila chilometri e nove fusi orari per scoprire che esiste un’altra Italia, ricca di fascino, che viaggia benissimo per il mondo senza e anzi nonostante la politica. Qui in California, quinta economia del pianeta, l’export italiano non conosce la crisi, i laureati dei politecnici di Torino o Milano trovano subito lavoro, gli stili di vita italiani, nel cibo e nella moda, rimangono un mito. Non per caso a organizzare la lobby in favore de La grande bellezza non sono il consolato o l’istituto di cultura ma Giorgio Armani, con cene e presentazioni.

Quando si parla del genio in architettura sulla stampa di Los Angeles s’intende per antonomasia Renzo Piano, che sta lavorando qui alla nuova sede dell’Academy, al fianco del presidente Steven Spielberg. E per tornare alla notte degli Oscar, è considerato ancora grande il cinema italiano, che in patria è preso così poco sul serio dalla politica - la linea rimane quella di Tremonti: "Con la cultura non si mangia" - per quanto l’industria dello spettacolo occupi da tempo molti più lavoratori di quella dell’automobile. A Hollywood il nostro cinema è preso assai sul serio. Se La grande bellezza stasera non vincesse, sarebbe un problema anzitutto per i bookmakers, che hanno puntato tutto sul film di Sorrentino. Il cinema italiano ha il record di vittorie nella categoria dei film stranieri (13) e non era mai successo che saltasse un decennio senza una vittoria. Unica apparente eccezione gli anni Ottanta, che videro in realtà il trionfo de L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, con nove statuette, girato in inglese. Ora, da La vita è bella di Benigni sono passati quindici anni e c’è una gran voglia di premiare un italiano.

Tutti discorsi che naturalmente spingono allo scongiuro il napoletano Paolo Sorrentino. "Queste vittorie annunciate portano malissimo. Comunque vada è stata un’avventura straordinaria e l’obiettivo è già superato con la vittoria ai Golden, gli Oscar europei, la cinquina dell’Academy, l’accoglienza del pubblico e della critica americani, di grandi registi. Le parole di Martin Scorsese su La grande bellezza per me poi sono il vero Oscar". Nel 1999, quando Hollywood e il mondo s’innamorarono del Guido Orefice de La vita è bella, Paolo stava ancora scrivendo la sceneggiatura del primo film, L’uomo in più, e fece un salto sulla poltrona, come milioni d’italiani, al "Roberto!" urlato da Sophia Loren. Ora, a parti invertite, Roberto Benigni fa arrivare da New York, dov’è andato con Nicoletta Braschi a trovare l’amico Jim Jarmusch, tutto il suo tifo per Paolo Sorrentino. Per il quale ha dichiarato il proprio voto di membro dell’Academy, così come ha fatto Nicola Piovani.

Sono passati quindici anni e un bel pezzo di storia, in genere brutta storia. Non si vorrebbero attribuire a Berlusconi altre colpe rispetto alle tante che giustamente gli abbiamo addossato in questi anni. Ma è certo che nel tunnel di disinteresse o di antipatia che ha circondato l’immagine del nostro paese negli anni Duemila c’entrasse molto la banale epopea del berlusconismo. Ora perfino da qui si può notare come il clima sia cambiato. Sorrentino non è ovviamente un fenomeno popolare come Roberto e Nicoletta nel ’99, che la gente salutava per strada al grido di "Buongiorno principessa!", ma ieri l’attenzione della stampa americana al Simposio dedicato alla cinquina dei film stranieri era tutta per il nostro. La critica californiana ha scritto meraviglie de La grande bellezza e si sono sprecati i pericolosi paragoni con La dolce vita e con Federico Fellini, che non era molto più giovane di Sorrentino quando vinse il primo Oscar con La strada; insieme, per fortuna, con altre e meno scontate note sull’originalità del linguaggio cinematografico del regista napoletano. La forza e il fascino del cinema di Sorrentino risiedono proprio in questo giocare fra passato e futuro, nell’appartenenza a una grande tradizione che non impedisce di sperimentare nuove strade. Sarebbe bello se dalla serata degli Oscar arrivasse il segnale che l’Italia sta cambiando davvero, almeno agli occhi di chi ci guarda da lontano.

CORRIERE.IT
Previsioni azzeccate: La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero. Dopo quindici anni, dunque, l’Italia torna a vincere. Il film che segue le peregrinazioni esistenziali del giornalista Jep Gambardella (Toni Servillo) sullo sfondo di una Roma opulenta annoiata e cafona ha conquistato quasi ogni premio: Golden Globes, Efa, Bafta. Raggiante il regista accompagnato sul palco da Servillo e dal produttore Nicola Giuliano. «Grazie alle mie fonti di ispirazione: Talking Heads, Federico Fellini, Martin Scorsese e Maradona. Grazie a Roma e a Napoli e alla mia personale grande bellezza: Daniela, Anna e Carlo» il cuore del suo discorso di ringraziamento, sciolto e spedito.
Oscar, Sorrentino:"Dedico il premio a Fellini, Maradona, Scorsese e ai Talking Heads"
A braccio, ma decisamente più articolato di quello, dominato dall’emozione, ai Golden Globes, in cui definì l’Italia «crazy country but beautiful». La grande contentezza Sorrentino la mostra anche alla stampa. «Avrò bisogno di mesi per capire cosa è successo» confessa. «Spero che l’Oscar serva da stimolo per il cinema italiano». I giornalisti americani domandano della musica, colpiti da una colonna sonora dove Raffaella Carrà passa il testimone al Kronos Quartet. «Un semplice mix di musica profana e sacra, così come Roma è capace di combinare il sacro e il profano».
Sorrentino, la carriera
SIMBIOSI - Nelle foto sul red carpet la simbiosi tra il regista e il suo attore feticcio sembrava perfetta. Paolo Sorrentino e Toni Servillo alias Jep Gambardella sono arrivati al Dolby Theatre in compagnia delle mogli Daniela e Manuela e il produttore Nicola Giuliano. Le altre due socie della Indigo Film, Francesca Cima e Viola Prestieri hanno seguito la cerimonia in platea con il direttore della fotografia de La grande bellezza Luca Bigazzi. Dall’Italia è arrivato un tifo da grandi occasioni, rimbalzato sui social. Tra i primi Gabriele Muccino che già dal pomeriggio rompe la consegna della scaramanzia «Stanotte La grande bellezza vince l’Oscar». E Francesca Archibugi dà voce a molti: «Invidio Sorrentino da bucarmisi le budella, ma perché è considerato sentimento reietto quando accende la fantasia, la voglia di far meglio?».
Sorrentino e Servillo sul palco degli Oscar
INDOTTO - La notte degli Oscar ha avuto un’onda lunghissima in Italia. A Roma sono state organizzate maratone dei film di Sorrentino, e visioni collettive della cerimonia condotta da Ellen Degeners (un bis dopo il 2007) e c’è chi si è attrezzato a offrire a turisti e fan di Sorrentino dei tour a pagamento sui luoghi del film, dal Fontanone del Gianicolo a Canale 5 trasmetterà La grande bellezza in 4 marzo in prima tv.
ITALIA BATTE FRANCIA - Quella per La Grande bellezza è la statuetta per miglior film straniero numero tredici, una in più della Francia. Il primo film premiato fu Sciuscia’ di Vittorio De Sica nel 1947, che ottenne il bis con Ladri di biciclette nel 1950. Nel 1957 fu la volta di Federico Fellini con La strada e l’anno dopo lo vinse nuovamente con Le notti di Cabiria. Ancora Fellini nel 1963 con Otto e mezzo e poi ancora nel 1974 per Amarcord oltre l’Oscar alla carriera nel ‘93, poco prima della morte. Vittorio De Sica fa tris nel 1965 con Ieri, oggi e domani e poker nel ‘71 per Il giardino dei Finzi Contini. L’anno prima, 1970, Elio Petri conquista il premio per il miglior film straniero per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Vent’anni dopo con Nuovo cinema Paradiso è Giuseppe Tornatore a vincere nella categoria. Il ‘92 tocca a Gabriele Salvatores con Mediterraneo. Infine il ciclone Roberto Benigni: 1999 miglior film straniero è La vita è bella e Benigni il miglior attore. Come miglior regista Bernardo Bertolucci vince nel 1988 con L’ultimo imperatore che conquista quattro statuette. Due vincitrici nella categoria miglior attrice: Anna Magnani per La Rosa tatuata (1955) e Sophia Loren (1962) per La Ciociara che poi nel ‘91 vinse anche l’Oscar alla carriera.
NAPOLITANO - Complimenti da tutto il mondo per Sorrentino. Ma forse l’elogio che gli farà più piacere è quello del suo concittadino e presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha dichiarato: «Si è giustamente colto nel film di Sorrentino il senso della grande tradizione del cinema italiano e insieme una nuova capacità di rappresentazione creativa della realtà del costume del nostro tempo. È uno splendido riconoscimento, è una splendida vittoria per l’Italia».

TALKING HEADS
Ieri sera gli Oscar sono stati l’annuale celebrazione del cinema. Anche la musica però ha avuto il suo spazio, a iniziare dalla dedica di Paolo Sorrentino ai Talking Heads. Che il regista amasse il gruppo americano l’avevamo già capito dal suo film precedente, intitolato This must be the place proprio in omaggio alla canzone delle teste parlanti inclusa nell’album Speaking in Tongues del 1983. Nel film poi, lo stesso leader del gruppo David Byrne afceva la sua apparizione e cantava in una scena bellissima (CLICCA QUI).

CAPPELLI SUL CORRIERE
La lunga corsa de La grande bellezza è finita poche ore fa con il verdetto degli Oscar. L’Italia è in ogni caso visibile all’estero grazie a un film feroce sulla volgarità del nostro tempo. La cavalcata di questa serie di quadri su una Roma alla deriva che rappresenta il Paese intero, una Roma oggi ferita dalle buche mai riparate dalla pioggia e dal rischio default, è durata quasi tre mesi: dalla selezione dell’Academy che comprende 9 titoli, alla nomination nella cinquina come miglior film straniero, passando per i trionfi agli Efa, ai Golden Globe e ai Bafta inglesi. Fino alla notte delle stelle.
Piccolo inedito: il primo titolo scelto da Paolo Sorrentino era L’apparato umano ; La grande bellezza è un dono dell’attore Roberto De Francesco, che aveva scritto un copione chiamato così. Piccola polemica: gli esercenti protestano per la messa in onda del film, domani su Canale 5, che «rischia di penalizzare l’ulteriore sfruttamento nelle sale». Riuscito in 25 copie dopo la nomination, da metà gennaio ha incassato altri 200 mila euro. Due attrici del cast, Pamela Villoresi e Galatea Ranzi, hanno seguito la notte degli Oscar dalla Casa del Cinema, dove si sono radunati cinefili e amici di Paolo Sorrentino. «A Los Angeles siamo stati invitati tutti, ma è giusto così, Paolo e Toni sono molto amici, non cambia nulla se abbiamo tifato dall’Italia», dice Carlo Verdone, nei panni di un autore teatrale fallito. Perché secondo lei in USA hanno amato così tanto il film? «C’è una scenografia imponente, c’è un mix potente nel contrasto tra i grandi ideali del passato e l’assenza di etica di oggi». Gli americani hanno un’idea romantica e hanno rivisto l’ombra di La dolce vita più di noi? «Fellini aveva uno sguardo affettuoso, Sorrentino è spietato verso un’umanità allo sbando. E via Veneto è diventata una strada normale, banale, semideserta».
In un impianto corale, Massimo Popolizio fa lo straordinario cameo del chirurgo plastico: «È un cast fondamentalmente teatrale e questo dimostra che anche i film importanti non si fanno con i tronisti o con chi viene dal Grande fratello ma con gli attori, vengo da 30 anni con Ronconi, questo è un super sdoganamento per il teatro. E poi basta considerare gli americani come degli Ufo che non sanno riconoscere le cose belle degli altri». Galatea Ranzi (la radical-chic), ricorda «il dibattito pazzesco suscitato in Italia da questo film tra chi è contro e chi è pro, io lo vivo come qualcosa di cui essere contenti e orgogliosi. Il paragone tra Servillo e Mastroianni? «Secondo me è forzato, e il Paese è cambiato. Delle analogie tra i due personaggi, entrambi giornalisti, possono esserci, ma nella Dolce vita Fellini aveva un suo mondo. Mi piace che qui non ci sia un plot vero e proprio, si passa da una storia all’altra, i personaggi ti prendono e non ti esauriscono la curiosità». Roberto Herlitzka è il cardinale che parla di ricette prelibate: «È un film estremo, non semplice da capire, prevale il senso dell’immagine più che il messaggio. Si polarizzano la volgarità e la bellezza».
Pamela Villoresi è la madre del ragazzo che muore: «Il cinema italiano deve riprendere il suo posto nella Storia. Quando portiamo la nostra identità con impegno, siamo imbattibili, apriamo il nostro scrigno con una profondità di cui solo noi siamo capaci. Penso a Le baruffe chiozzotte che recitai diretta da Strehler a Parigi: nessuno capiva il dialetto veneto, ma c’era la fila di un chilometro per vederci». Giorgio Pasotti (il personaggio misterioso che ha la chiave dei palazzi più belli, ha la chiave della Grande bellezza ): «È un successo comunque, per un film difficile da realizzare in Italia, il cinema è pressato dal disimpegno e dalle commedie a non finire».
Isabella Ferrari (la benestante signora del Nord: le chiedono, cosa fai tu? E lei: «Io sono ricca»): «L’orgoglio di aver fatto parte di un grande affresco me lo tengo nel cuore. Mi auguro che questo film sia una prima svolta per l’Italia, che diventi un sentimento collettivo per tutti noi, un primo passo per non avere più paura del futuro e guardare avanti».
Valerio Cappelli

RECENSIONE FATTA A SUO TEMPO DA ALESSANDRA LEVANTESI KEZICH
lessandra levantesi kezich

È giusto fino a un certo punto tirare in ballo Fellini a proposito del nuovo film di Paolo Sorrentino, in uscita in sala in contemporanea con la presentazione sulla Croisette. Perché, pur ricco di citazioni-omaggio al capolavoro del maestro riminese, La grande bellezza sta a La dolce Vita come la Via Veneto di oggi sta alla Via Veneto del 1959. Adesso è solo una strada di hotel di lusso dove è vano ricercare il clima notturno di un tempo: i caffè affollati di artisti e intellettuali, le scorribande di divi e fotografi, i night-club frequentati da una variegata fauna di nobili, perdigiorno e letterati. Insomma, il mondo immortalato da Fellini in un affresco visionario che ha fatto epoca; e anche scandalo per il suo fotografare, senza moralismi, una società italiana che, dismesso l’idealismo postbellico, si apprestava ad abbracciare con ludico cinismo i miti consumistici. Il tutto filtrato attraverso lo sguardo di Marcello (Mastroianni), sognante Virgilio che di quella Roma ribollente e magmatica leggeva i segnali di decadenza, subendone al contempo la dolce fascinazione o, se vogliamo,«la grande bellezza».



Certo, con qualche differenza di personalità, il cronista mondano Jep (Toni Servillo) del film di Sorrentino potrebbe ben essere Marcello mezzo secolo dopo, fatto salvo che lo scenario in cui si muove è peggio che decadente, è vuoto. E infatti lui, nel suo attico affacciato sul Colosseo, vive come immerso nella liquida noia di chi sa che nulla scandalizza più nessuno, che ogni parola è falsa, che i pochi superstiti sono morti dentro: dalla coppia Forte/ Buccirosso alla progressista da salotto Ranzi alla frustrata alto-borghese Villoresi. Ci sono anche feste esagitate e cafone, cardinali che parlano di alta cucina, loschi maghi del lifting: ma restano grotteschi frammenti di un puzzle che non arriva a comporsi in disegno unitario. Colpa di un’Italia allo sprofondo e senza più identità; colpa anche di una sceneggiatura che sotto l’aspetto di concertare significative scene di gruppo si presenta debole, mentre a emergere incisiva è la figura di Jep, disincantato viveur fra le macerie delle illusioni perdute. E Servillo lo incarna con consumata maestria, giocando a nascondersi dietro la maschera dell’uomo di mondo per poi svelarne a sorpresa il volto umano: soprattutto quando entra in rapporto a personaggi che conservano una loro innocenza, come la vulnerata spogliarellista Ferilli e il tenero letterato fallito Verdone; o quando, fra visite notturne nei palazzi patrizi e passeggiate sul lungotevere, si ritrova con immutato stupore a tu per tu con la bellezza immobile e fuori dal tempo di Roma.

WIRED.IT
Il meccanismo che ha portato al trionfo del film italiano
Nonostante ci piaccia pensare che sia stata premiata la qualità e il buon cinema (che pure è vero e chi ha visto gli altri nominati lo sa bene) non è questa l’unica e forse nemmeno la principale ragione per la quale La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar per il Miglior film straniero.
Dietro la corsa agli Academy Awards infatti ci sono i medesimi meccanismi che in piccolo si ritrovano in molti altri premi simili (BAFTA, European Awards, David di Donatello ecc. ecc.) e hanno più a che vedere con il meccanismo di votazione, la composizione della giuria e le regole della distribuzione che altro.
Insomma per vincere un Oscar, specie quello per il Miglior film straniero, il meccanismo è più importante del film in sè e saperlo sfruttare può essere determinante.
Non a caso ogni anno c’è un film come La Grande Bellezza, un assopigliatutto che di premiazione in premiazione, di festival in festival, ammassa trofei, riconoscimenti, menzioni e viene celebrato in tutto il mondo. Quel film che tutti amano premiare all’interno di manifestazioni i cui giurati sono tutt’altro che ristretti ma una massa di persone che di certo non hanno visto tutte le opere da valutare, ma che di certo non si perdono l’assopigliatutto dell’annata, il film di cui parlano tutti. Per questo, al di là dei meriti, capita di frequente che un film solo raccolga i principali premi per il cinema in lingua straniera di tutto il mondo, alimentando nei mesi il suo stesso mito fino ad arrivare all’Oscar.
I giurati dell’Academy sono poco più di 6.000, tutti diventati tali per un misto di sponsorizzazione da parte di altri membri (come nei circoli sportivi d’alto lignaggio) e meriti professionali (essere parte dell’industria dell’arte americana o internazionale è una condizione per diventare membro), i film da vedere sono invece diverse centinaia. Qui trovate la lista ufficiale di quelli di quest’anno, e ovviamente sarebbero tutti “da vedere” sia per fare le nomination che poi per poter votare quella quarantina in lizza per una statuetta nella serata finale.
Dunque un giurato che non volesse guardare tutti i film per votare le nomination ma solo quelli nominati, dovrebbe vederne 40 di cui solo una decina sono quelli di grande incasso che sicuramente avrà già visto (American Hustle, Gravity, 12 anni schiavo, Dallas Buyers Club…).
È tuttavia un fatto acclarato che questo non accade, quasi nessuno dei 6000 membri vede tutti i film, ed è talmente risaputo che i membri dell’Academy che guardano tutto sono pochi che i loro nomi si conoscono. In particolare per la categoria che interessa a noi, Miglior Film Straniero (le cui pellicole nessuno ha probabilmente già visto prima della stagione degli Oscar), si chiama Michael Goldman il giurato noto per vedere ogni anno tutti i film eleggibili.
È quindi evidente che per poter partecipare e poi vincere il problema maggiore è essere visti dal maggior numero possibile di giurati. Questo avviene lavorando economicamente, cioè organizzando eventi, buffet, feste e via dicendo che includano una proiezione o che creino passaparola sull’importanza di un certo film (in modo che, se pure non si presenzia alle proiezioni, almeno venga la voglia di guardare i dvd che ogni giurato riceve). Fu così, è noto, che Benigni vinse addirittura premi che non erano Miglior Film Straniero (i fratelli Weinstein, colossi della distribuzione statunitense avevano acquistato La vita è bella per una distribuzione americana e cominciarono a spingerlo con i loro soldi pensando, com’è stato, che degli Oscar avrebbero fatto di quel film italiano un successo), e lo stesso è accaduto con The Artist.
Questa motivazione è una delle molte per le quali il nostro cinema non è presente da tempo nella cinquina di nominati per Miglior Film Straniero (non pensiate che i vincitori ogni anno siano migliori dei nostri, capita solo di rado): investimenti insufficienti.
La Grande Bellezza invece arrivava con un ottimo passaparola, lavorando bene in premiazioni alternative, trionfando in Europa (sebbene non a Cannes, il cui vincitore di quest’anno La vita di Adele era fuori dalla corsa agli Oscar perchè uscito troppo tardi in America) e soprattutto vincendo i Golden Globes (premi che vengono dati dalla stampa estera, dunque più incline ad aver visto film stranieri). La Grande Bellezza era quindi già “il film da vedere”, quello che i giurati erano più stimolati a guardare o che se non altro stava in cima alla loro lista di cose da vedere, la stessa lista alla fine della quale solitamente non arrivano.
Se a questo si aggiunge che l’età media di un giurato dell’Academy è più vicina ai 60 che ai 30 è evidente che un film su Roma, foriero di suggestioni da cinema d’altri tempi, paragonabile (per la ristretta conoscenza che gli stranieri hanno del cinema italiano) a Fellini e costellato di immagini straordinarie di un luogo mitologico della storia del cinema, aveva gioco facile a farsi vedere.
Tutto questo non leva di certo i meriti di un film che è autenticamente straordinario, Oscar o non Oscar, ma è sempre meglio intendersi bene sulle motivazioni della vittoria che si celebra.