Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano 1/3/2014, 1 marzo 2014
MORANDO VICE ALL’ECONOMIA IL VERO GOVERNO È AL TESORO
Ora che ci sono anche i viceministri e i sottosegretari, lo schema è ancora più chiaro: palazzo Chigi è nelle mani degli arrembanti barbari arrivati dalla Provincia, inesperti ma pieni di buona volontà, il ministero dell’Economia invece è la sede di un governo parallelo: zero facce nuove o giovani, poco carisma ma molta competenza tecnica. La vera spalla del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sarà il vice Enrico Morando, ex senatore Pd, ex presidente della Commissione bilancio al Senato, uno che aveva il curriculum per fare il ministro e che assicura quell’esperienza che manca a quasi tutta la prima fila del governo Renzi.
L’altro vice, un po’ per il manuale Cencelli, un po’ per dare continuità, è Luigi Casero, che resta sulla poltrona che occupava durante il governo Letta (ai tempi di Berlusconi era sottosegretario), probabilmente conserverà la delega al fisco. Altra conferma quella dell’ex sindacalista Cisl Pier Paolo Baretta, quota Pd, sottosegretario che nell’ultimo anno ha avuto il poco invidiabile compito di gestire la questione Imu. Debutta in via XX Settembre come sottosegretario Enrico Zanetti, deputato di Scelta Civica, commercialista, molto battagliero sulle questioni fiscali (di recente ha denunciato come i funzionari di Equitalia prendano bonus in base a quanto contestano, a prescindere dai risultati). Da palazzo Chigi arriva anche Giovanni Legnini, un senatore del Pd che per Letta ha seguito l’editoria, incentivando i giornali sussidiati a passare al digitale, e che torna al suo ambito, la finanza pubblica, è stato anche relatore di una legge di stabilità. La squadra, quindi, è fatta. Nessun nome strettamente renziano – sono rimasti fuori il deputato Pd Yoram Gutgeld e il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, cui Renzi si affida per il programma – prevale l’esperienza e la caratura tecnica, poco glamour e molta sostanza.
Il contrasto con palazzo Chigi non potrebbe essere più evidente: Renzi si è portato l’unica persona di cui si fida, l’ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio come capo dello staff (sottosegretario alla presidenza), il quale a sua volta ha scelto come capo di gabinetto l’ex city manager reggiano Mauro Bonaretti, ora tra i sottosegretari c’è anche Luca Lotti, fiorentino amico da sempre del premier.
Delrio e Renzi hanno licenziato il consigliere economico per le questioni internazionali di Letta, Fabrizio Pagani, e il segretario generale Roberto Garofoli, un magistrato del Consiglio di Stato giovane e potente che era il segretario generale di palazzo Chigi, vertice della struttura amministrativa. Risultato: Garofoli è andato al ministero del Tesoro addirittura come capo di gabinetto, carica che in via XX Settembre assicura un’enorme influenza, Fabrizio Pagani lo ha seguito come capo della segreteria tecnica, forte di un rapporto con Padoan che deriva dall’aver lavorato insieme all’Ocse, il think tank dei Paesi sviluppati a Parigi. Alla comunicazione del ministero dovrebbe restare un altro veterano, Roberto Basso, che aveva lavorato prima con Fabrizio Barca e poi con Fabrizio Saccomanni.
C’è una strana contraddizione nelle scelte di Renzi, che potrebbe nascondere una dose di buonsenso dietro la demagogia oppure compromessi con gli anziani (dalemiani) del Pd. Il premier predica lotta alla burocrazia e ai mandarini di Stato, sogna di smontare la Ragioneria generale (la struttura che di mestiere deve bocciare i provvedimenti di spesa che non hanno copertura), progetta di manovrare da palazzo Chigi il commissario per la revisione della Spesa Carlo Cottarelli . Eppure, invece che creare una squadra economica leggera e manovrabile, manda in via XX Settembre un blocco solido, di persone pensate per piacere a Bruxelles e perfino a Berlino. Padoan e Pagani hanno l’impronta Ocse, non hanno certo voglia di finire sotto procedura d’infrazione per aver superato il 3 per cento del rapporto deficit-Pil. Morando è tra i pochi del Pd che non ha mai rinnegato il sostegno al governo Monti e alle sue impopolari misure di austerità, ha intuito l’avanzata dei populisti e si è posto il problema di come affrontarli senza inseguirli (come prova a fare Renzi). Anche i nomi più domestici – da Baretta a Legnini a Casero – non sono certo fuori linea. A fianco di Saccomanni, il vice di Mario Draghi in Banca d’Italia, uomo delle istituzioni europee e garante del rigore nel governo Letta, c’era il contestatore Stefano Fassina, un viceministro che avrebbe voluto una politica molto diversa e più espansiva rispetto a quella del suo superiore.
Questa volta la squadra del Tesoro è compatta, la frizione non rischia più di essere all’interno ma tra via XX Settembre e palazzo Chigi. O forse no, forse Renzi ha voluto dimostrare che al momento decisivo ha saputo superare il suo peggior difetto, il fastidio verso collaboratori più preparati e solidi di lui.
Twitter @stefanofeltri