Dino Messina, Corriere della Sera 1/3/2014, 1 marzo 2014
CAVOUR, TOLSTOJ UN NOME CHE SA DI STORIA
Morire per Sebastopoli. Noi italiani sappiamo cosa significa perché siamo diventati nazione anche grazie alla partecipazione nella guerra di Crimea (1854-1856). Cavour vollea ogni costo inviare un contingente per sedersial tavolo della pace e porre la questione italiana.
Quindicimila uomini guidati dal generale Alfonso Lamarmora si unirono alle truppe francesi, britanniche e turche contro la Russia onde ottenere un ruolo da protagonisti nelle trattative nel marzo 1856 a Parigi, dove Napoleone III concesse ai piemontesi un incontro supplementare, nonostante le proteste austriache. Il piccolo regno dei Savoia riuscì incredibilmente indebitato dall’avventura ma quella partecipazione internazionale, ricordata in un bel dipinto di Induno sulla battaglia della Cernaia, pose le basi del patto segreto di Plombières con la Francia e della Seconda guerra di Indipendenza.
La Crimea fa dunque parte della nostra storia nazionale, come si legge nella biografia di Napoleone III (Salerno editore 2010) scritta da Eugenio Di Rienzo, il quale spiega anche i motivi per cui Francia e Gran Bretagna decisero di affiancare la Turchia contro la Russia: il pretesto era la rivalità sul controllo dei luoghi cristiani nell’impero ottomano ma la vera ragione era di porre un limite alle mire zariste, attraverso il controllo dello stretto dei Dardanelli, sul Mediterraneo.
La guerra di Crimea fu una delle più sanguinose dell’Ottocento e anche quella che diede vita a una letteratura e a una mitologia che arrivano ai nostri giorni. Chi non ha mai visto una delle due versioni della «Carica dei seicento» (nel 1936 con Erroll Flynn e nel 1968 con David Hammings), film che raccontano in maniera romanzata il disastro della battaglia di Balaclava del 25 ottobre 1854, quando per un ordine male interpretato 673 cavalieri inglesi si scagliarono contro le linee russe forti di ventimila soldati: un massacro simbolo dell’ottusità e del valore militare cantato dal poeta Tennyson. Un altro simbolo del coraggio britannico, questa volta andato a buon fine, che si riferisce sempre alla giornata del 25 ottobre, è «la sottile linea rossa», espressione proverbiale che fu coniata da un giornalista del Times per indicare le due file di fanti scozzesi (solitamente erano quattro) messi ad attendere la carica dei cavalieri russi, sicuri di sfondare verso Balaclava. I pochi scozzesi attesero che il nemico arrivasse a cinquanta metri prima di far fuoco. Un atto temerario che fu premiato.
Se per l’Italia la guerra di Crimea rappresentò un passo decisivo verso l’unità nazionale, per la Francia di Napoleone III una notevole affermazione internazionale, per la Gran Bretagna un successo parziale e la nascita di una nuova organizzazione tra cui l’introduzione degli ospedali da campo secondo i metodi voluti da Florence Nightingale, per la Russia la sconfitta fu la presa di coscienza dei propri limiti. Lev Tolstoj, ufficiale ventiseienne testimone del disastro, nei tre racconti di Sebastopoli avviò una critica radicale che suonò come uno schiaffo per una nazione che si credeva imbattibile. Allora, racconta Ettore Cinnella, storico dell’Università di Pisa, autore tra l’altro del saggio «1917. La Russia verso l’abisso» (Della Porta editori), con una dolorosa presa di coscienza partì la riforma dell’esercito, la riforma sociale che diede la libertà ai contadini, e si avviò la costruzione della rete ferroviaria.
La penisola di Crimea, strappata definitivamente dai russi all’impero ottomano nel 1783, per la sua felice posizione geografica, e anche per la complessa composizione demografica, in cui una parte rilevante ha svolto la popolazione di origine tatara, ha sempre avuto un ruolo cruciale nella storia della Russia zarista e dell’Unione Sovietica. È sempre Ettore Cinnella a raccontare che a Sebastopoli nel novembre 1905 nacque il primo soviet congiunto di marinai e operai («1905. La vera rivoluzione russa», Della Porta editori, 2008). E fu in Crimea che nel 1920 il generale Petr Nikolaevic Vrangel, comandante delle armate bianche, oppose l’ultima resistenza all’esercito bolscevico.
La Crimea venne donata dalla federazione russa all’Ucraina nel 1954, in occasione del tricentenario dell’annessione dell’Ucraina alla Russia. Fu un fatto formale perché l’Unione Sovietica pur essendo una federazione era uno Stato fortemente centralizzato, ma anche un omaggio fatto alla propria terra dall’ucraino Nikita Kruscev.
La popolazione della ridente penisola portava in dote non solo le ferite della Seconda guerra mondiale: la battaglia di Crimea tra le forze naziste e sovietiche si svolse tra l’autunno del 1941 e l’estate del ’42. La tragedia che ancora oggi lacera quella regione fu la deportazione verso l’Asia centrale, a conflitto finito, di duecentomila tatari accusati di aver collaborato con i nazisti. I tatari di Crimea, autorizzati a rientrare in patria da Kruscev, paragonano quell’episodio al genocidio armeno, poiché morì quasi la metà dei deportati.
In Italia si è parlato poco di questo dramma, mentre i riflettori non si sono mai spenti sulla conferenza di Yalta, tra i vincitori della guerra: Roosevelt, Churchill e Stalin. Il dittatore georgiano amava le coste della penisola, meta della nomenklatura comunista internazionale. Non è un caso che Palmiro Togliatti morì a Yalta il 21 agosto 1964.
Alla Crimea è legata anche una figura nel nostro socialismo riformista, la compagna di Filippo Turati, Anna Kuliscioff, nata nel 1855 a Sinferopoli, il capoluogo amministrativo della Crimea dove pure sono arrivati i paracadutisti russi.
Dino Messina