Francesco Saverio Intorcia, la Repubblica 1/3/2014, 1 marzo 2014
PALETTA, L’ULTIMO DEGLI ORIUNDI “IL DESIDERIO DEL MIO BISNONNO”
[Gabriel Paletta]
Nella nuova casa del Parma, una balena azzurra spiaggiata fra i campi d’allenamento, luccica una spilletta elettorale confezionata dai tifosi: “Paletta in Nazionale”, il logo è proprio l’attrezzo da mare. L’argentino Gabriel Paletta, 28 anni, una compagna, Paula, un bimbo di 5 mesi, Sebastian, da quattro stagioni è il leader della difesa crociata e qui lo amano anche per il suo talento artistico: disegna le caricature dei compagni, due anni fa li ha immortalati in un calendario benefico andato a ruba. Lo corteggia mezza serie A, ha il passaporto italiano e sta per ricevere la convocazione di Prandelli per Spagna-Italia. Sarebbe il 42° oriundo azzurro. «Non so nulla — sorride — resto tranquillo e aspetto, sarebbe stupendo. Arrivato a Parma mi parlarono di questa possibilità, ci penso da allora. Ho scelto da tempo, ma c’erano tanti intoppi burocratici, superati solo in estate».
Paletta, le sue origini sono calabresi.
«Il mio bisnonno Vincenzo emigrò da Crotone. Io sono cresciuto a Longchamps, 40 minuti da Buenos Aires. Mio padre Hugo camionista tutta una vita, noi a casa con mamma Isabel. Quattro maschi, io il più piccolo, il calcio in testa, la venerazione per Maradona e un folle amore di famiglia per il Boca. Mio fratello Hector arbitra in A e in B; Ariel e Daniel sono al Racing Club, uno magazziniere, l’altro preparatore».
Come ha cominciato?
«A sette anni, sul campetto sotto casa: la squadra si chiamava Esperanza. A dieci mi presentai con cinque amici al provino col Banfield, ci presero tutti. Gli altri si sono persi, troppi chilometri per allenarsi, io prendevo il treno o mi accompagnavano i miei, tutti i giorni. A loro girai i primi soldi, il premio per la vittoria del Primavera. E quelli del primo contratto, a 18 anni, diecimila pesos annui».
Nel 2005 lei debutta in prima squadra nel Banfield, vince il mondiale U20 con l’Argentina, approda al Liverpool. Sembra fatta.
« Tutto troppo i n frett a . Ero arrivato in cima al mondo con Messi, avevamo battuto gente come Llorente, Fabregas, David Silva, Obi Mikel, Guarin, Falcao, Diego. Benitez mi notò e mi volle in Inghilterra: aveva vinto la Champions, la squadra era fortissima. Mi copriva di complimenti, ma non giocavo mai. Mi stufai, tornai a casa, c’era il Boca, come rifiutare? La Bombonera, i cori de “La 12”: un sogno, per me. Solo oggi ammetto che dovevo avere più pazienza, ma a Liverpool stavo male, ero solo, ricordo solo il gelo: in un anno non ho mai cenato con un compagno».
E poi l’Italia, finalmente.
«Avevo firmato col Palermo. Alle visite non erano convinti del mio ginocchio, volevano operarmi di nuovo, li salutai. A Parma invece mi sono sentito subito a casa, ottimo rapporto con i compagni, i tifosi, Donadoni. Non abbiamo mai avuto una squadra così forte come quest’anno: meritiamo di essere lassù. E domani il derby col Sassuolo, da vincere».
Dicono che la sua dote principale sia la forza mentale.
«Quando un attaccante ti punta, devi essere capace di non agitarti e di restare lucido. Altrimenti è finita. Grazie a Donadoni studio gli avversari in video. Devo sapere prima dove vogliono andare. Devo essere bravo a portarli dal lato opposto. Quando ti trovi la classe di Lavezzi, la forza di Ibra, la resistenza di Cavani, i più forti che ho affrontato in Italia, devi per forza marcarli con la testa. Il mio modello è Samuel».
Quanti tatuaggi ha?
«Nessuno. Li detesto. E niente orecchini. Sono un tipo essenziale».
In che cosa si sente italiano?
«In Argentina sono cresciuto, ho i miei cari, è nato Sebastian. Ma mi sento italiano se penso al sogno del mio bisnonno. Avrebbe voluto che i suoi figli tornassero in Calabria, con qualche soldo in più in tasca, per dire che lui ce l’aveva fatta. Lo ripeteva sempre, non l’ha fatto nessuno. Vestendo l’azzurro, in un certo senso, completerei il suo viaggio ».
Conosce l’inno?
«L’ho studiato, lo canterei. Non capisco perché a molti non piaccia, è un testo stupendo. Soprattutto il finale: siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Mette i brividi».