Francesco Merlo, la Repubblica 1/3/2014, 1 marzo 2014
LA CAPITALE DELLA GRANDE BRUTTEZZA
CARLO Verdone mi dice che dal suo balcone al Gianicolo vede già «il buio del magnifico fallimento della mia città, una nuvola di depressione». È la stessa che io respiro a Termini già alle 6 del mattino con il puzzo d’orina che si sprigiona dall’ultima uscita della metropolitana e si diffonde, unica fragranza in mancanza di ponentino, sul piazzale dove si staglia l’orrenda statua di Papa Wojtyla che è romanissima arte per amicizia e non per valore estetico. Verdone nota con dolore che «mentre a Los Angeles si celebra la Roma metafisica di Sorrentino, qui fallisce quella fisica». E prevede che, alla fine, «quando saranno finiti anche i 750 milioni che sono stati stanziati adesso, venderanno Roma ai cinesi come hanno fatto in Kenya».
«VENDERANNO Roma agli asiatici e Pompei ai tedeschi. Quelli sanno come intervenire. Noi facciamo solo eventi e niente interventi ».
Dunque leggiamo, io e Verdone, il tempo dello stesso fallimento di Roma ognuno nel suo spazio. Girando a piedi tutte le mattine io ho imparato a riconoscere i borseggiatori fissi di Termini, che si nascondono tra le auto posteggiate, «finti poveri che ogni tanto picchiano i veri poveri» mi spiegano i carabinieri e io penso che somigliano ai furfanti organizzati che ho visto a Calcutta. Verdone invece, che ha lavorato in periferia, è come entrato dentro la canzone di Renato Zero («C’è chi fin là non giunge mai / è lì che muore il mondo») e perciò dice che lì Roma è strafallita molto tempo fa». Io invece a Termini ho visto all’opera la banda delle baby scippatrici: una decina di bambine che “lavorano” sotto, sulle banchine in direzione Laurentina, e sopra, nei treni dei pendolari. Tra i portoghesi che regolarmente non pagano il biglietto, ne riconosco sempre uno che salta i tornelli come un atleta. E ho pure notato che i vigili urbani si voltano dall’altra parte. Li ho invece visti multare un giovane dall’aria per bene che diceva di avere smarrito il biglietto. Ha versato 50 euro ripetendo con l’aria umiliata: «Ma ho la faccia di uno che non paga il biglietto, io?».
Racconto a Verdone che oggi, a Termini, sulla parete di un’edicola ho annotato un nuovo orribile scarabocchio decifrabile come “Marino sei un fallito”, firmato dal graffitaro Lash Dirty Ink, che ha persino un sito Internet dove esibisce i tatuaggi. Commenta Verdone: «Ne prendessero uno, almeno una volta. Certo, questi sono dei gran maleducati, ma gli educatori, a Roma, dove stanno?».
Ne parlo con Massimiliano Tonelli che dirige il giornale online Romafaschifo. it ed è un grido d’amore così esasperato da capovolgersi in dannazione. Il sito è la modernizzazione della statua di Pasquino dove venivano postati, come i file di oggi, i pizzini di denunzia che allora si chiamavano cartigli. E le divinazioni di un tempo oggi sono i video. Ebbene, Tonelli riceve minacce di morte - «ti faremo fuori» - perché riesce ogni tanto a beccare in azione i graffitari che dice «sono peggio della mafia dei cartellonisti, dei caldarrostai che dominano il mercato dei camion-ristoro e dei bulli travestiti da antichi romani. Il graffitaro più distruttivo è quello che si firma Reps perché non usa il solito spray ma l’acido con cui ha sfasciato, per esempio, tutte le nuove pensiline».
Non so quante siano, ma di sicuro sono molte centinaia queste pensiline dell’Atac in cristallo chiaro e in metallo. Ne racconto una per tutte, quella di via Manzoni: il sedile è stato asportato (vengono riciclati nei mercatini selvaggi) e le scritte sono indelebili e trasversali: «merda a Berlusconi» e «comunisti di merda». Quelli dell’impresa Clear Channel, che forniscono gratis le pensiline sperando di recuperare e guadagnare con la pubblicità, sono disperati e progettano la fuga. Dice Verdone: «In tutta Europa hanno eliminato i graffiti tranne a Roma dove sono tutti artisti imbrattatori, tanto restano impunti».
Dunque Verdone la guarda dal Gianicolo e la vede «spenta nonostante il tramonto meraviglioso» ma la malinconia estetica non è nulla in confronto al dolore fisico: «La deformano sino alla bruttezza e la sformano sino al pericolo ». E racconta Verdone: «Per ben due volte ho rischiato di morire cadendo, anzi precipitando con la moto in una buca». Ed è un’immagine da fallimento di guerra questa città sventrata, con la terra che si sbriciola, «e ogni tanto ci buttano una balla di catrame ma, dopo una settimana, la buca è di nuovo là, più profonda di prima». E mi dice che per andare a casa «percorro ogni giorno una bella strada larga, ma a sinistra, come in Inghilterra, perché è meglio rischiare di sbattere con le auto che ti vengono incontro piuttosto che finire dentro le buche».
Chiedo a Tonelli se il suo sito ha mai tentato una mappa, una carta geografica di queste famose buche, un indirizzario, una topografia sovversiva del fallimento, da mostrare magari al sindaco che, tarantolato come il vecchio Ciccio Franco di Reggio Calabria, crede che il default dipenda davvero dalla contabilità, dai soldi che, mannaggia, lo stato non gli voleva dare. E invece la diagnosi del tempo è già nella descrizione dello spazio: «Il fallimento - dice Verdone - comincia dalla mancanza di manutenzione ». Tonelli sostiene che è impossibile disegnare la topografia del terrore «ma stiamo lavorando al contrario, faremo la mappa della Roma senza buche, e sarebbe bello presentarla al sindaco, come il curriculum vitae – ah, la lingua batte dove il dente duole – del fallimento». Anche Verdone, per esempio, potrebbe disegnare il suo curriculum, ma nel senso in cui lo sognava Walter Benjamin, il diagramma di una vita perennemente con l’acqua alla gola: «Dal balcone del Gianicolo sino all’ultima buca evitata».
Quali sono i suoi palcoscenici del fallimento di Roma, caro Verdone? «Beh, cominciamo con corso Vittorio Emanuele, il rione Monti, e poi via Cavour, in mezzo a gelati che sanno di sapone, panini precotti, pizze a taglio e gente che ti vuol far mangiare a tutti i costi porcherie. E dove c’era una libreria ora ci sta una saracinesca chiusa con la scritta “vendesi”. E in via Giulia, che era la più bella strada del mondo, non ci si può andare né in macchina né a piedi. E dappertutto vendono la stessa fregnaccia, la solita statuetta di Giulio Cesare fabbricata in Cina. E i Fori imperiali, che sono una pedonalizzazione sbagliata e pure finta… e la nuova Metropolitana che sono sicuro che io muoio e manco la vedo, capolavoro di un nuovo stile architettonico: l’incompiuto romano. E ancora quel raccordo anulare da terzo mondo. È come nel film di Fellini. Quello era cosi visionario che aveva già filmato anche il fallimento della città di Marino».
Dico: c’è anche la pista ciclabile del Tevere che umiliando l’idea stessa di passeggiata, con i tronchi d’albero, la spazzatura, il fango e i pavimenti divelti, sbugiarda persino la bici del sindaco. «Io - dice Verdone - so che questa città, negli anni scorsi, ha sopportato menzogne di ogni genere, e subìto tanti e tali scandali che capisco bene quelli che non volevano dare soldi a Roma. Pensano: tanto se li rubano».
L’idea di fallimento è quindi la traccia di un’epoca, e ogni mattina, in piazza Santa Maria maggiore, dove la Basilica è sempre transennata per impedire ai clochard di sistemarsi sui gradini di Dio, c’è una signora che esce dalla sua stabile tana di stracci , plastica e cartoni, dove vive rasoterra. Ingenuamente mi stupisco che si svesta e si rivesta senza neppure guardarsi intorno. Ci sono giacigli dappertutto sui marciapiedi, e rimasugli di cibo sui cartoni. È questo che chiamano «desocializzazione estrema» ed è difficile immaginare come Roma, ora che ha avuto i sui 750 milioni, possa assicurare a questa umanità dannata non dico la fraternité del 14 luglio ma almeno un po’ di decenza.
E vedo il fallimento anche nel palazzo dell’Opera dove il sindaco Marino si è esibito in una delle sue peggiori performance minacciando la chiusura e – rieccolo - il default, ma anche domandando preoccupato: «Quanto dura questa Manon Lescaut?».
Sulla via Nazionale passo davanti al piccolo Eliseo e all’Eliseo. I teatri a Roma sono luoghi di ricreazione per la terza età, quando va bene. E il teatro Valle è diventato il “centro sociale” degli artisti che lo hanno requisito. In alto c’è il Viminale, so che lì c’è Angelino Alfano e che la nostra sicurezza è nelle mani del ministro del Kazakistan. Verdone, affacciato dal suo balcone come da un palco di anfiteatro, ha una vista che toglie il fiato sul magnifico fallimento. Al punto che legge anche i segni che non vede: «Lo so che sembra un’ingenuità ma non c’è nessuno che dia il buon esempio, forse a Roma tutti meriterebbero di fallire».
Vado avanti e c’è il Palazzo delle esposizioni, un’istituzione antica e ancora efficiente che parla di un’altra Roma. Poi una curva a gomito prepara la sorpresa dei fori imperiale e di Palazzo Venezia con l’altare della patria, e nessuno ormai sa di quel foro dove poggiando l’occhio vedi in linea retta l’obelisco di piazza del Popolo, una prova della potenza della geometria e dell’ordine
massonico.
Infine c’è la Roma cartolina dei provinciali, con la casa di Berlusconi che è diventata folklore, come le orribili bancarelle del centro storico che è «il vero fallimento di Roma» secondo Verdone.
Nella bellissima piazza Lovatelli, dove ha sede la Sovrintendenza, si può scoprire persino che è vero quel che mi dice Tonelli e cioè che «è stato divelto il palo che segnalava l’isola pedonale, è stata rotta la catena e ora beatamente parcheggiano le auto tutti quelli della Sovrintendenza». E per me è questo il segno più romano del fallimento di Roma. Conclude Verdone: «È una città tutta sbagliata, biglietto da visita di un Paese tutto sbagliato. Sorrentino è stato bravo perché ha rimosso tutti i segni del fallimento mostrando che sotto c’è sepolta la grande bellezza».