Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 03 Lunedì calendario

GIUSEPPE DE RITA


ROMA «No, non lo scriverò. Però ne ho una gran voglia». Nell’elegante villino del Censis, riflettendo sui cinquant’anni dell’istituto, Giuseppe De Rita immagina un libro a cui affidare pensieri lungamente coltivati, e mai detti. «Me ne sono sempre infischiato, ma con un po’ di rabbia».
Che cosa le fa rabbia?
«Mi hanno sempre considerato uno di serie B. Uno che studiava delle cose non degne di un intellettuale. Ma se dovessi togliermi lo sfizio di scrivere qualcosa di mio come esperienza finale di vita...».
Cosa scriverebbe?
«Farei una rivisitazione ideologica del mio lavoro».
Che vuol dire?
«Ho molto riflettuto su questo anniversario. La realtà è sempre meglio delle opinioni. C’è una bellissima frase di papa Francesco: le opinioni non radunano, la realtà è. Ecco: io sono sempre stato duramente dalla parte della realtà. Realismo gesuitico? Forse. Ma ha inciso anche l’ambiente culturale cattocomunista dei Felice Balbo, Franco Rodano e Giorgio Ceriani Sebregondi. Facevano una rivista che si chiamava Cultura e realtà.
Ancora una volta, la realtà».
Lo dice quasi con spirito rivendicativo.
«Sì, perché chi aderisce alla realtà non fa la figura di un insigne teorico. Quando cominciammo con il Censis, tra il 1963 e il 1964, fummo aggrediti da ambienti molto diversi. Eravamo accusati di non capire le cose più importanti».
Chi erano i vostri critici?
«La sinistra del Manifesto.
Ed anche quella del Pci, del mio amico Gerardo Chiaromonte. Quando scoprimmo il sommerso, Rinascita titolò: Siamo al folclore economico.
Ma neppure la grande industria e la grande cultura economica ci guardavano con favore. Per Franco Modigliani e per Gianni Agnelli io ero ’l’amico degli stracciaroli’. La realtà che raccontavamo non piaceva all’opinione dominante».
E invece?
«Se avessi avuto più coraggio, non mi sarei limitato a raccontare quel che vedevo. Avrei dovuto ricavarne un’ideologia. L’ideologia del piccolo, del territorio, del localismo, dell’orizzontalità dei processi. Se avessimo fatto un’elaborazione raffinata e non puramente descrittiva, il paese ne avrebbe tratto vantaggio».
Fu un errore non farlo?
«No, non credo di aver sbagliato. Il nostro mestiere era un altro, però... Prendiamo l’economia sommersa. La scoprimmo a Prato sul finire degli anni Sessanta. I telai nascosti nel sottoscala, la macchina in funzione 24 ore su 24. Ovunque in Italia esisteva questa occupazione occulta. Nel rapporto annuale del Censis non la chiamammo ’economia sommersa’ perché ci pareva poco professorale. L’avremmo chiamata così l’anno successivo, nel 1971, tra gli insulti del sindacato che ci accusava di dare dignità a una schifezza».
Il ’sommerso’ è una categoria che ha avuto grande successo.
«Ogni tanto scherzando dico che ci saremmo meritati il Nobel. Scoprimmo un fenomeno che poi ha dominato il mondo. Se però avessimo anche elaborato un’idea del mercato del lavoro più flessibile, aperto al sommerso, forse avremmo reso un servizio al paese ».
Un’altra cosa che vedeste prima degli altri fu l’immigrazione. Nel 1977 registraste già cinquecentomila clandestini, nella totale indifferenza della classe politica.
«Sì, fummo i primi, anche grazie all’intuizione dell’ambasciatore Falchi. Perché nessuno se ne fece carico? Perché il fenomeno sarebbe esploso più tardi, a quel punto terrorizzando tutti quanti. Nell’89, da presidente del Cnel, dedicai una conferenza all’immigrazione. Con il suo bel vocione, padre Turoldo tuonò contro le nostre chiusure verso i migranti. Cossiga si arrabbiò con me: ma perché l’hai invitato? In galera dovrebbe stare».
Aveva ragione padre Turoldo.
«È un altro di miei rimorsi da ideologo mancato. Se non mi fossi limitato a dire: guardate che ci sono gli immigrati, e avessi cercato anche una cornice istituzionale, lavoristica e contrattuale, per l’Italia sarebbe stata un’opportunità».
Altri rimpianti?
«Potrei farle molti esempi. Preferisco affrontare il nodo centrale. Nel nostro paese c’è stata una divaricazione della cultura economica: una parte è andata per strade raffinate e un’altra ha scelto il realismo quotidiano che però non ha mai esercitato la stessa autorevolezza. Se ho un rimorso è proprio questo: non aver avuto l’ambizione di nobilitare il mio mestiere. Anche perché non ne ho avuto il tempo».
In che senso?
«Da mezzo secolo il Censis sta sul mercato: far quadrare il bilancio non è facile. Dobbiamo fare almeno quattro milioni e mezzo di fatturato, che poi significa circa cinquanta/sessanta ricerche all’anno. Non c’è stato il tempo per fare gli ideologi di se stessi».
Il Censis viene percepito come un istituto pubblico.
«Vittorio Feltri continua a sfotterci: prendete soldi pubblici e poi parlate male del pubblico. Non sono riuscito a convincerlo che viviamo in una condizione di mercato brutale, che è anche quella che ci garantisce piena libertà».
Lei è sempre stato ritenuto vicino alla Dc.
«Non l’ho mai smentito perché non smentisco mai quello che scrivono i giornali. Sono stato amico di tutti i leader democristiani e socia-listi, ma non ho mai fatto vita di partito, né mai candidato alle elezioni. L’unico che mi chiese di entrare nel governo fu Berlusconi nel 1994. Un democristiano a cui devo molto è Tommaso Morlino, moroteo di stretta osservanza, che quando fondammo il Censis mi disse: scordati il mestiere che facevi prima, non fare più programmi. Vai in giro e vedi cosa c’è. L’altra figura che ha avuto su di me uno straordinario influsso è Rossana Rossanda».
Davvero?
«Una vera amica. In suo libro recente, Quando si pensava in grande, l’unico italiano non comunista citato sono io. Non siamo mai andati d’accordo su nulla. Però mi ha sempre fatto da specchio dialettico. Rossana è sempre stata la mia alterità».
Torniamo alla rabbia a cui alludeva prima. È come se lei avesse a lungo patito un’estraneità rispetto all’establishment economico.
«Scusi, ma dove sta l’establishment? Io ho conosciuto l’ultimo vero establishment, che era quello dei Beneduce, dei Mattioli, dei Cuccia e dei Menichella. Una classe dirigente che, pure nella diversità degli interessi, coltivava un’idea del paese: se non sembra retorico, direi patriottica. Di questa élite, che accompagnò il passaggio dal fascismo alla democrazia, faceva parte anche Pasquale Saraceno, che è stato il mio padrone alla Svimez per otto anni. Qualche volta andavo a mangiare al Buco, al collegio Romano, e lì vedevo Raffaele Mattioli con Claudio Napoleoni e ogni tanto Piero Sraffa. Più tardi avremmo conosciuto un’altra cosa, che anche nelle sue parti migliori non fa establishment. Prenda la ’macchina Banca d’Italia’, che ha fornito al paese gente straordinariamente brava. Anche quella ha esaurito la benzina: non può essere un bancomat della classe dirigente».
Scriverà mai il libro di cui mi parlava?
«Intende L’ideologo che non fui?
No, sarebbe un errore. Significherebbe dire: l’Italia sarebbe stata più bella se avessi costruito un’impalcatura teorica intorno a quello che ho visto. Invece il paese va accettato per quello che è. Qui sta la differenza ».
Che intende?
«Io, gli italiani, non li ho mai voluti cambiare. Ho odiato con tutte le mie forze — no, odiato no perché sono incapace di odiare — ho reagito con rabbia ai propositi: dobbiamo cambiare gli italiani. Ma che dici? Poi senti in giro: gli italiani ci hanno tradito. Eh no, sei tu che non li hai riconosciuti. E non riconoscere la realtà, in nome di una superiorità intellettuale, è un bel paradosso».
Pensa anche lei che quella italiana sia stata una grande illusione: un’illusione dettata dall’idea che il progresso fosse infinito?
’No, questo no. Da noi ha pesato un’altra illusione che è quella dell’eternità del presente. Oggi stiamo bene, staremo sempre bene. È quello che ci ha fregato sul piano antropologico, perché vivere nel presente significa distruggere la memoria del passato e non avere curiosità per il futuro. C’è una bellissima frase di Manlio Sgalambro: il passato non mi interessa, perché era il presente di altri. Il futuro non mi interessa, perché sarà il presente di altri. A me interessa il mio presente, oggi. Questa è stata la malattia italiana».