Gianni Mura, La Repubblica 3/3/2014, 3 marzo 2014
IL CICLONE GENEROSO DAGLI OCCHI GRANATA “I MIEI GOL A PERDIFIATO”
TREZZO D’ADDA
Tritium 1908, la scritta incombe sul campo un po’ spelacchiato. Paolino Pulici arriva in auto, e di che colore potrebbe essere l’auto se non granata? Dal 1990 il piccolo mondo del grande attaccante è nei quattro chilometri che ci sono tra Roncello, dov’è nato, e Trezzo, dove allena (gratis) i Pulcini dai 6 agli 8 anni.
«Mi piace, mi aiuta a non sentirmi un anziano signore coi capelli bianchi. Più che un allenatore sono un compagno di gioco più anziano. È un po’ come a scuola, in prima elementare non puoi assegnare subito un tema o dare un problemino da risolvere. Prima c’è l’abc, le tabelline. Quindi insegno come si stoppa, come si passa il pallone, come si tira. Le partitelle 7 contro 7 le faccio con loro e insisto sul concetto di gioco. Questo dev’essere. È anche un’industria? Sì, ma non ci riguarda e non mi riguarda. Sto bene così, respiro aria pura, la stessa che respiravo da ragazzino al Filadelfia. Tutto il resto non fa per me, ho chiuso».
Tre anni allenatore in seconda al Piacenza, con Titta Rota. E poi basta. Perché, di preciso?
«Perché, a parte Beppe Signori, un ragazzino con cui ci si sfidava ai rigori e che cercava in qualche modo di imitare qualche mio colpo, ho trovato poca umanità, poca umiltà, poca voglia di sacrificarsi. Al Toro ogni partita era come una battaglia, non si discuteva con largo anticipo sul premio-partita. Il premio era l’attesa della partita, e poi giocarla e magari vincerla. La soddisfazione era dare tutto per la maglia che indossavi, e sentire i cori e gli applausi dei tifosi. Io mi sono sempre sentito uno di loro, dopo le partite andavo a casa a piedi, dal Comunale a Santa Rita sarà un chilometro e mezzo. I tifosi del Toro sono speciali. Sarà la tragedia di Superga, di Meroni, la rivalità con la Juve, ma io mi sono sentito subito in sintonia con loro».
Fino al punto di fumargli le sigarette, si racconta.
«Sì, prima di un Torino-Atalanta. Maso, un capotifoso, s’era appena accesa una Nazionale senza filtro, entrando in campo gliel’ho presa, ho fatto tre tiri e gliel’ho restituita. È finita 3 0, tre gol miei. Brutto vizio, poi ho smesso. Avevo cominciato a 14 anni, quando lavoravo in una trafileria di rame. Tutti bevevano latte, per togliersi dalla bocca i vapori del verderame, ma io ero quasi allergico al latte, tant’è che mia madre mi ha tirato su a patate, così ho cominciato a fumare. Poi sono passato in un mollificio di Roncello, Cima si chiamava. Ci tengo a citarlo perché il padrone, Gigi, era una brava persona. Quando il Torino mi ha preso dal Legnano, gli ho chiesto di tenermi il posto per un anno. Se andava male, tornavo in fabbrica. Allora Roncello faceva 800 abitanti, adesso è cinque volte tanto, un dormitorio di Milano come molti paesi qui intorno. Non c’era nemmeno l’oratorio, giocavo in piazza della chiesa. Una porta era quella dell’asilo, l’altra quella di una casa. Trovo ancora qualcuno che mi rinfaccia d’aver rotto un vetro a sua nonna o a sua zia. Tiravo solo di destro. Sono cresciuto in una famiglia milanista ma il mio idolo era Gigi Riva. A 15 anni correvo i 100 in 10”5 con le scarpe da calcio. E a 15 anni faccio i primi allenamenti veri. Ero cresciuto allo stato brado, senza che nessuno mi dicesse cosa fare o non fare. E arriva il giorno del provino con l’Inter, sul campo di Rogoredo, con altri ragazzi della regione. A guardare ci sono Helenio Herrera e Invernizzi. Li sento parlare a fine partita. “L’11 è troppo veloce per giocare a calcio, meglio che si dia all’atletica”. L’11 ero io, e ci rimasi male. Poi arrivò la chiamata del Torino. Mia madre aveva dei dubbi: è troppo lontano da casa, farai la vita del barbone. Invece ci sono rimasto 17 anni, bellissimi e lunghissimi, finché non sono passato dal ruolo di insostituibile a quello di inutile. Il presidente Pianelli per noi era come un padre. Cedette il club ma mi lasciò il cartellino. Forse per questo Moggi mi fece fuori col pretesto che ero vecchio. Avevo 32 anni e al posto mio presero Selvaggi che ne aveva 30».
Com’è stato l’impatto col Torino?
«Splendido. Quando in passato sentivo dire “ricostruiamo il Filadelfia” dicevo sì, ma aggiungevo che non era solo questione di storia, di legni, di mattoni, ma di abitudini, di spirito, di vita. Oggi a Torino tra dove s’allenano i titolari e dove s’allenano i ragazzini ci sono 20 chilometri. Mentre il fascino, direi la scuola del Filadelfia, era che i campi d’allenamento erano tutti lì, e anche gli spogliatoi, i più vicini al campo per la prima squadra e poi via via, più defilati, quelli delle giovanili. E io ricordo bene con quanta trepidazione camminavo davanti allo spogliatoio dei titolari nella speranza che uscisse qualcuno a chiedermi chi ero, da dove venivo, in che ruolo giocavo. Ed è successo: il primo è stato Moschino, poi Ferrini, Combin, Puja. Quando poi qualcuno di loro si fermava a guardare le nostre partitelle, ti sentivi di spaccare il mondo. E io, facendo carriera, mi sono regolato come Moschino quel giorno: chi sei? da dove vieni? ah, giochi in attacco? se fai gol, martedì me lo vieni a dire. Ci vuole così poco a far felice un ragazzo, a farlo sentire nel gruppo. Devo molto ad alcuni allenatori. Giagnoni e Radice, ma prima ancora Oberdan Ussello».
Perché?
«Intanto, per la grande umanità. Ricordatevi che loro vi stanno guardando, diceva quando passavamo davanti allo spogliatoio dei grandi, E per loro intendeva Mazzola, Maroso, Castigliano, Gabetto. Poi c’erano i vecchi cuori granata. Guarda Pupi, questo è l’autografo di capitan Valentino. Sai, Pupi, che un gol come il tuo l’ho visto fare a Libonatti? Io sono destro naturale, molti pensano che sia mancino ma è stato Ussello il primo a farmi usare il sinistro. Le mamme ci hanno dato due piedi per usarli, Pupi. Tu credi che il più forte sia il destro, invece è il sinistro, il piede d’appoggio. Prova a tirare. Col destro, 140 all’ora, col sinistro 160. Col destro giocavo la palla ferma, col sinistro quella in movimento. I primi due anni, una frana. In allenamento uno sfracello, in partita una quantità di pali e traverse, ma solo 3 gol in 47 gare. Ero in prima squadra e Ussello ha detto a Giagnoni: Il ragazzo non è tranquillo quando tira, se me lo dai per un mese te lo rendo lucidato. Per me era un passo indietro ma non me la presi, capii che era per il mio bene. Giagnoni si fidava, dopo quel mese mi nominò rigorista ufficiale».
Duelli?
«Tanti. Burgnich l’avversario più corretto, Morini il più coriaceo, una volta mi ha anche morsicato sulla schiena ma in genere s’aiutava con le mani. Berti Vogts il più cattivo, ma anche Galdiolo non scherzava. Pronti via, Pecci mi dà la palla larga, Galdiolo mi falcia da dietro, mi sbatte fuori dal campo e mi dice: o ti fermo così o non ti fermo proprio. Soddisfazioni. Prima partita col Cagliari. Sottopassaggio. Sento uno che mi tocca sulla schiena, mi giro. È Riva. Vai tranquillo, mi dice, noi che veniamo dal Legnano sappiamo cavarcela. Be’, mi sono sentito più alto di un metro. E il mio primo gol lo segno proprio all’Inter, saltando Burgnich. Che si complimenta mentre torno a centrocampo: bravo Pulici, vai avanti così, magari non insistere proprio oggi. Un’altra volta segno un bel gol in slalom alla Fiorentina e Mazzone mi chiama a sé. Cosa vorrà? Mi accosto. Bravo, me li hai ammazzati tutti, mi dice, e mi stringe la mano ».
Le piace il calcio di oggi?
«Se devo vedere una partita, scelgo il campionato inglese o quello tedesco. Da noi gioca in A troppa gente che non sa stoppare, che non sa fare un lancio, che non sa difendere. È che nessuno allena più nella marcatura a uomo. È lì che si impara, poi la zona bastano due settimane a insegnarla. Poi una cosa: che differenza c’è tra possesso palla e melina? Io non ne vedo molte. Capisco il Barcellona, che il possesso lo fa ai bordi dell’area avversaria, ma gli altri? È stata una bella soddisfazione per me quando su questo campo è arrivato Pep Guardiola.
Giocava a Brescia, voleva capire cos’era la mentalità-Toro. Gli ho detto che era fare una corsa in più, per quella maglia, anche se non avevi più fiato. Che era l’aiuto degli anziani ai giovani. Una volta mi trovai da solo contro quattro difensori e cercai il fallo. Mi buttai, l’arbitrò abboccò. E Ferrini negli spogliatoi mi disse a muso duro: ragazzino, che sia l’ultima volta che ti butti. Alla fine ci rimetti tu, l’arbitro guarda la moviola stasera e in futuro ci penserà due volte prima di darti un rigore che c’era. Grande capitano, Ferrini. Quando le cose andavano male diceva: adesso dobbiamo buttare il cuore oltre l’ostacolo e andarcelo a riprendere. E noi ci saremmo buttati nel fuoco. Erano battaglie sì, ma con una regola non scritta: va bene l’entrata anche dura se c’è il pallone, al limite sono più veloce a spostarlo e mi prendi la gamba, ma va bene. A palla lontana, ogni carognata non sarà tollerata. Oggi vedo falli molto più cattivi di una volta».
Contro la Juve era una battaglia particolare?
«Cuccureddu diceva che nel derby mi diventavano granata anche gli occhi. Ma eravamo amici, avevamo fatto il militare insieme. Una volta in uno scontro con Scirea mi ruppi il naso. Quando mi risvegliai all’ospedale, dopo l’operazione, la prima faccia che vidi, oltre a quella di mia moglie, era di Scirea. Un grande, Gaetano. Su lui non saremmo mai andati in pressione. La parola pressing non era ancora arrivata, ma Radice ci diceva di andare in pressione sul difensore più scarso di piede. Nella Juve Morini, nell’Inter Baresi. Si cercava l’anello debole. E Radice, ogni volta, prima di andare in campo, ci faceva: “Qualcuno ha qualcosa da dire?”. Era un modo per coinvolgerci, le cose non cadevano dall’alto».
Il gol più bello?
«Il pallonetto a Zoff, da circa 35 metri, in un derby. Il più utile il colpo di testa al Cesena, il gol-scudetto».
Rimpianti?
«Juve 51 Torino 50, e avevamo la miglior difesa e il miglior attacco. Dura da mandar giù. E nel ‘72 i gol annullati ad Agroppi a Genova, a Toschi a Milano, buoni tutti e due. Finale: Juve 43, Torino e Milan 42. Ma il rimpianto più forte riguarda la Nazionale. Sono l’unico convocato a due mondiali senza mai andare nemmeno in panchina. La prima volta nel ‘74 ero giovane, avevo davanti giocatori famosi, ma in Argentina la mia parte potevo farla. Del Toro eravamo in sei e giocò solo Zaccarelli. Alle semifinali molti erano cotti, ma non ci furono cambi. E dire che Bearzot era un vecchio cuore granata. Comunque non mi lamento. Del passato, mi tengo Puliciclone, così mi ribattezzò Gianni Brera, e da lì è nata Ciclone, una canzone di Flavio Oreglio. La prima volta che l’ho sentita mi sono commosso, non solo per come mi definisce (un treno che travolge la stazione, un Tir di generosità) ma perché l’omaggio viene da un tifoso interista. E al presente mi bastano la mia famiglia, l’affetto dei tifosi, gli unici per cui mi muovo, una volta sono andato fino a Sassari, e le partitelle coi bambini, qui. L’ideale sarebbe allenare una squadra di orfani, ma
coi genitori basta parlare chiaro».