Maria Novella De Luca, La Repubblica 3/3/2014, 3 marzo 2014
GIOVENTU’ BEVUTA
I più stupiti di solito sono i genitori: «Pensavamo che fossero soltanto delle sbronze». Invece il baby alcolista ha gli occhi spenti e la vita segnata. Uno di quei cinquecentomila ragazzini italiani che nella deriva delle notti ubriache di milioni di adolescenti, perdono la testa e i confini della realtà. E poi è davvero dura risalire.
Neknominate, eyeballing, binge drinking: il clamore delle sfide mortali a base di liquori pesanti che mietono vittime sui social network, riporta l’attenzione sulla piaga dell’alcolismo giovanile, droga sommersa e sottovalutata. E se i nomi di questi giochi pericolosi (versarsi vodka negli occhi, bere fino a stordirsi, filmare se stessi mentre si ingurgitano litri di birra) suonano ostili a chi ha più di vent’anni, attenzione perché dietro c’è molto altro. C’è la storia di come e quando, in meno di due decenni, le nordiche sbronze collettive del sabato sera abbiano conquistato i riti dei teenager italiani, facendo impennare i numeri di chi finisce nella vera e propria dipendenza.
Dallo sbarco pianificato sul mercato degli “alcolpops” ai micidiali “shortini”, cocktail dolci a pochi euro per bevute seriali che complice l’assenzio arrivano subito alla testa, il “binge drinking” coinvolge oggi oltre due milioni di giovanissimi tra i 16 e i 24 anni, soltanto per citare la fascia d’età più numerosa. E un quarto di questi rischia ogni weekend di saltare il fosso, sono ormai tante le storie di bevitori-ragazzini che affollano i centri alcologici italiani, il 17% delle intossicazioni etiliche registrate nei pronto soccorsi riguarda, addirittura, adolescenti tra i 13 e 16 anni. Gli ultimi a rimetterci la vita sono stati i giocatori del “Neknominate”, il folle drink-game nato in Australia e viralizzato su Facebook, che consiste nello sfidare la morte affogandosi di birra, vino o liquori, e chi ce la fa passa il turno e indica un altro utente del social come prossimo giocatore. Chi spezza la catena viene ricoperto di insulti. Naturalmente i primi gruppi sono fioriti anche in Italia (un ragazzo finito in coma ad Agrigento) si spera che abbiano vita breve nonostante il rifiuto di Fb di rimuoverli dalla Rete. Per fortuna c’è anche chi si ribella, come un diciassettenne romano che respingendo al mittente la sua “nomination” ha postato il suo ritratto accanto ad una bottiglia di latte. Ricevendo a sorpresa non pochi consensi su Facebook.
Ma dietro questi episodi estremi c’è il racconto di una gioventù “ebbra”, l’età acerba che diventa l’età ubriaca, con i suoi corollari di vittime e disabilità. Quel mondo che Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio Nazionale Alcol del-l’Istituto superiore di Sanità, traduce in dati, cifre, analisi, e non si stanca di andare a discuterne con i ragazzi delle scuole. Perché magari loro non ci caschino. «Il bere smodato, il binge drinking è un fenomeno drammaticamente sottovalutato in Italia, a partire dalle famiglie. Per non parlare delle ragazzine che mescolano sbronze e digiuno. “Drunkoressia” si chiama. L’alcol in età giovanile produce danni cerebrali uguali a quelli delle droghe, è anzi un ponte verso molti tipi di sostanze. Ci sono studenti delle scuole medie che abitualmente, prima di entrare in classe, si fermano a bere qualcosa al bar di fronte. Come è possibile? Come mai chi vende loro quel bicchiere non viene fermato e multato? I giovani amano il rischio, si sa, la tecnologia amplifica le loro ritualità, ma il punto è che manca una griglia di controllo e di protezione. E i genitori, terrorizzati dalle droghe, troppo spesso minimizzano di fronte ad un figlio che torna a casa barcollando... ». Invece a volte, ricorda Scafato, “bastano norme rigorose” per dimezzare vittime e lutti. «È stato sufficiente imporre il livello zero di alcol nel sangue ai guidatori al di sotto dei 21 anni, per abbattere il numero degli incidenti stradali legati alla guida in stato di ebbrezza».
Eccola, allora, la movida alcolica, Ponte Milvio, zona Nord di Roma, piazza diventata celebre per i lucchetti dell’amore (poi rimossi) dei romanzi di Federico Moccia. Alle due del mattino una folla di teenager ubriachi vaga tra chioschi e bar accumulando birre e bicchierini di superalcolici (shortini). Caos di moto e di costosissime mini-car. Prezzo delle consumazioni, in piedi, tra i due e i quattro euro. Nessuno si preoccupa dell’età legale al di sotto della quale (sedici anni) sarebbe vietato bere. Gruppi di ragazzine brille camminano abbracciate, la risata facile e convulsa, la voce alterata, il selciato è un tappeto di vetri e chiazze di vomito. Provando a parlarci si ottengono frasi sincopate tipo “mi ubriaco perché è fico”, “perché è divertente”, “ma che dici non sono sbronza”, “fatti gli affari tuoi”. La verità è che così le difese si abbassano, e a forza di andare avanti e indietro per la piazza i gruppi si mescolano, il tasso alcolico facilita gli incontri, l’amicizia, il sesso, anche le risse, le miscele della sbornia comprendono birra, liquori, amari, cocktail, energy drink.
Emblematici i nomi dei famosi shortini: Tricolore, Morte Lenta, Cane rabbioso, Killer, prevedono in dosi variabili sambuca, tequila, whisky, vodka, assenzio, succhi di frutta e a volte aggiunta di alcol puro. «Non bevo sempre, soltanto il venerdì e il sabato — racconta Guido, 17 anni con fare da adulto, gli occhi rossi, la faccia sgualcita — per me è naturale, il resto della settimana sono sobrio, vado bene a scuola, faccio sport, non mi drogo, insomma sono un bravo ragazzo e per i miei genitori va bene così...». L’inizio di una carriera di alcolista, direbbero gli esperti, e chissà veramente cosa sanno i genitori di Guido.
Paola Nicolini, docente di Psicologia all’università di Macerata, ha scritto per “FrancoAngeli” il libro “Sentirsi brilli”. E spiega che oggi la sbronza per gli adolescenti non è il bicchiere di troppo che sfugge, bensì “un rito per affrontare la socialità”. «Si beve per esorcizzare preventivamente il dolore di un fallimento, per rendersi simpatici, per essere accettati dal gruppo, perché ci si sente fragili, ma il rischio è che ogni volta c’è bisogno di aumentare le dosi...E spesso i genitori negano, minimizzano, come se in fondo l’alcol non fosse così pericoloso, storie di ragazzi, dicono, con un ottimismo del tutto irreale».
Ed è proprio di questa sottovalutazione del rischio, ma anche delle gravi responsabilità del mercato, che parla Valentino Patussi, responsabile del Centro alcologico regionale della Toscana e di quello dell’ospedale universitario di Careggi. «Il binge drinking nasce dall’immissione nel mondo dei teenager di alcol a basso prezzo, in forme e modi che lo rendessero attraente e fruibile per il loro gusto e le loro tasche. Dunque una precisa strategia commerciale che ha puntato a far consumare liquori ai ragazzi in un’età in cui sarebbe addirittura proibito per legge. E lo Stato su tutto questo guadagna attraverso le accise sull’alcol. Una colpevole contraddizione, di cui però non si parla mai, ma invece noi medici ne vediamo le drammatiche conseguenze sui giovanissimi».
Le cifre dell’Istituto superiore di sanità citano circa 500mila baby alcolisti, ma soltanto una piccolissima parte di questi arriva poi nei centri alcologici. Perché prima di capire che le sbronze del proprio figlio sono l’anticamera della dipendenza, si sono persi anni preziosi. «Aiutare un giovane a smettere di bere — aggiunge Valentino Patussi — vuol dire aiutarlo a capire che ha un problema. Ma è tutto il nucleo che entra nel programma, genitori, fratelli, fidanzate, perché è solo partendo dalle relazioni più intime che si possono modificare i comportamenti ». E forse fermare la sua discesa di baby bevitore nel tunnel dell’alcolismo.